Alberto Anile per www.wellesnet.com, 4 gennaio 2023
LUCKY LUCIANO & ORSON WELLES - ALBERTO ANILE: UNO DEI PIÙ GRANDI REGISTI DEL MONDO E UNO DEI PIÙ PERICOLOSI GANGSTER MAFIOSI SI SONO INCONTRATI PER PARLARE DI UN FILM – ORSON: “VOLEVA CONVINCERMI A REALIZZARE LA VERA STORIA DELLA SUA VITA. AVREI DOVUTO SCRIVERLA E DIRIGERLA E PURE INTERPRETARLA. AVREI POTUTO ELEVARLO A UNA COLLOCAZIONE STORICA DECENTE” - LA PROVA DI QUEL FOLLE PROGETTO DI CINEBIOGRAFIA È IN UN RAPPORTO DELL'FBI DESECRETATO: “LUCIANO STA FACENDO UNA GROSSA OFFERTA PER PENETRARE ALL’INTERNO DELL’INDUSTRIA CINEMATOGRAFICA ITALIANA” -
«Sono stato inseguito attraverso tutta l’Italia da Charles Luciano – chiamato “Lucky” da ignoranti lettori di giornali. Voleva convincermi a realizzare la vera storia della sua vita. Pensava che avrei dovuto farlo. Avrei dovuto scriverla e dirigerla e pure interpretarla. Avrei potuto elevarlo a una collocazione storica decente».
Parla Orson Welles, pochi mesi prima di morire, alla sua biografa Barbara Leaming. Accenna a un progetto cinematografico mai realizzato con un gangster leggendario. Un episodio misterioso, talmente romanzesco da far sospettare di essere inventato.
Sappiamo di un vago interesse di Welles per le vicende di Salvatore Giuliano, e perfino di un paio di ipotesi cinematografiche sull’argomento, ma ben poco su un film commissionato da Lucky Luciano in persona. Si direbbe che Welles l’abbia sparata grossa, giusto per impressionare l’autrice di una biografia ben remunerata.
Welles ebbe una carriera straordinaria e una vita intensissima, raccontata in lunghe interviste con le quali si sono riempiti interi libri zeppi di gusto umoristico, sbruffoneria politicamente scorretta e gran dovizia di aneddoti. «Roosevelt ed io facemmo insieme la prima colazione la mattina che andò a Yalta…» «Presentavo in giro la mia ragazza di allora, Norma Jean…» «Houdini mi regalò dei consigli sui trucchi magici…».
Invenzioni? Esagerazioni? Dal regista che ingannò milioni di americani mettendo in scena un’invasione aliena alla radio (La guerra dei mondi) o nobilitando ad arte il lavoro del falsario (F for Fake) ci si aspetta questo e altro. Ma con lui non si sa mai. È già capitato che delle possibili sbruffonerie trovassero poi conferma nell’improvviso ritrovamento di inoppugnabili pezze d’appoggio: certe sue lamentele sulla paternità del soggetto di Monsieur Verdoux parevano spudorata millanteria finché non sono venute a galla le ricevute di cessione a Chaplin.
Nel suo libro, Barbara Leaming non aggiunge nulla al breve virgolettato del cineasta, non insiste, non fa la classica “seconda domanda”. La fa invece Henry Jaglom in ‘’A pranzo con Orson’’, il libro-intervista più recente, con le conversazioni registrate al ristorante Ma Maison. Welles raccontava di mafiosi e picchiatori e Jaglom lo incalza: dimmi la verità, hai davvero conosciuto dei gangster?
«Li conoscevo tutti», risponde lui «… per forza. Se in quel periodo vivevi, come me, a Broadway, se vivevi nei nightclub, non potevi non conoscerli. Io portavo a letto le ballerine, socializzavo con chiunque entrasse, stavo lì fino alle cinque del mattino; e loro amavano bazzicare i nightclub. Arrivavano e si sedevano al tuo tavolo».
Welles ricordava fra l’altro uno scontro fra Luciano e un poliziotto di nome Brannigan, un duro deciso a ripulire il quartiere: «Una volta lo vidi ficcare Charlie Luciano di testa dentro un bidone dell’immondizia, davanti a Reuben’s, alle cinque e mezzo del mattino».
Anche Peter Bogdanovich gli chiese quali gangster avesse conosciuto. «Luciano e Costello, e perfino Capone», gli rispose Orson, «insieme a qualche personaggio minore. Era facile per chi lavorava nel cinema non conoscerli, ma quasi impossibile per chi lavorava nello spettacolo – Broadway – a meno che non si evitasse di andare al night e di fare conoscenza con chiunque lavorasse negli altri settori dello spettacolo. (…) Impossibile entrare in un night club senza che Costello ti mandasse una bottiglia di champagne, o andare da Lindy’s senza che Luciano venisse a salutarti».
Bogdanovich è l’unica altra persona ad aver sentito Welles parlare del progetto di Luciano, anche se in termini ancora più vaghi, e in parte ridimensionandolo: «A Roma e a Napoli, Luciano e la sua banda avevano l’abitudine di venirmi a trovare, durante il suo esilio. (…) Mi è sempre sembrata una persona particolarmente disgustosa; lo trovavo più sgradevole degli altri».
Lo frequentavi perché avevi paura di lui?, gli chiede Bogdanovich. «Non è che lo si frequentasse», risponde Orson. «Prendi un caffè all’Hotel Excelsior di Napoli, e Luciano si siede al tuo tavolo. È questo, frequentare Luciano; fino a quando è finito il caffè. Si dice, “ciao, Charlie, mi fa piacere vederti” – così lo si chiama, Charlie – e un paio di ragazzi si siedono anche loro.
“Non ti piacerebbe fare un film su di me, Orsten (sic)?” mi diceva sempre. “La vera storia di Charlie Luciano?” Si faceva una pubblicità incessante; questo era uno dei motivi per cui mi dava la caccia per tutta l’Italia. E io gli dicevo sempre, “sì, certo”, mentre facevo cenni disperati per chiedere il conto!».
Viene il dubbio che Welles abbia ricamato sopra una conoscenza occasionale, inventandosi un’ipotesi cinematografica che somiglia tanto all’«offerta che non si può rifiutare» del Padrino di Coppola. Welles, di fatto rifiutandola, ci fa pure un po’ la figura dell’eroe.
In realtà, esiste un documento, un rapporto americano ormai desecretato, in cui i nomi di Welles e di Luciano sono esplicitamente accostati. È la prova che quell’incontro (e, insieme ad esso, quel folle progetto di cinebiografia) è esistito davvero, che Luciano intendeva fare quel film, e farlo proprio con Welles.
Si tratta di un foglietto del 1948, conservato nei National Archives di College Park, nel Maryland, tenuto in copia dentro l’archivio di Giuseppe Casarrubea, lo storico siciliano che ha studiato per anni le vicende di Salvatore Giuliano. Il rapporto porta la data del 17 marzo 1948, epoca in cui Welles stava per terminare le riprese di Cagliostro.
A quell’epoca Salvatore Lucania, negli States ribattezzato Charles Luciano, si trovava in Italia da quasi un anno, graziato dal governatore di New York Thomas Dewey (lo stesso che nel 1936, da procuratore speciale, lo aveva arrestato) si dice per la collaborazione mafiosa offerta ai militari americani durante lo sbarco in Sicilia.
Rispedito in patria come “indesiderabile”, Luciano veniva osservato dagli italiani con un misto di timore e fascinazione; le nostre forze dell’ordine lo fermarono e interrogarono più volte ma in mancanza di reati accertati sul nostro suolo fu lasciato sostanzialmente in pace. Gli americani, che avendolo mandato via sapevano bene di cosa fosse capace, continuarono invece a sorvegliarlo con pressante regolarità.
Il documento dei National Archives fa parte di questo lavoro di intelligence. L’estensore del rapporto è tale Henry L. Manfredi, agente per conto dell’esercito americano, incaricato dalla Criminal Investigation Division di raccogliere informazioni utili. Manfredi riporta di essere entrato in diretto contatto con Luciano una settimana prima attraverso Ralph Liguori, amico del mafioso e mafioso lui stesso, espulso dagli Stati Uniti insieme a Luciano.
Manfredi scrive tra l’altro che il gangster «ha parlato di un futuro incontro con Orson Welles, il famoso attore che al momento risiede a Roma al Hotel Excelsior». Non si entra nel dettaglio, ma non ci sono dubbi che l’argomento dovesse essere cinematografico: Manfredi informa del fatto che «Luciano sta facendo una grossa offerta per penetrare all’interno dell’industria cinematografica italiana». Per questo, Luciano si sarebbe avvalso anche dell’aiuto di uno zio di Liguori, manager in una casa di produzione italiana (l’agente, per la verità, ammette di non essere riuscito a identificare né l’uno né l’altra).
Il rapporto di Manfredi cita anche il nome di un altro divo hollywoodiano: George Raft. Luciano aveva annunciato a Manfredi che l’attore, atteso di lì a poco a Parigi, avrebbe fatto «una tappa a Roma per discorrere con lui dell’industria cinematografica americana». Va ricordato che Raft, oltre ad avere sangue materno italiano, aveva raggiunto il successo interpretando gangster fascinosi in Scarface e Morire all’alba, e Luciano, come molti altri mafiosi italoamericani, ne era particolarmente intrigato.
Spiegava Welles, in uno dei suoi pranzi con Jaglom, che «il gangster di classe fu un’invenzione di Hollywood. Divenne l’ideale di tutti i gangster veri, che all’epoca di George Raft iniziarono a vestirsi come George Raft, tentarono di comportarsi come George Raft, e così via».
Il summenzionato Ralph Liguori è una figura chiave. Luogotenente e amico del gangster, a Roma era un habitué del locale notturno La Nirvanetta. È possibile che sia stato proprio Liguori a fissare un primo rendez vous tra il gangster e Welles. L’agente Manfredi non lo sapeva ma Welles e Liguori avevano rapporti amichevoli. Ne rimane traccia in un libro americano di Rosemary Valenti Guarnera, Me and the General (2014), basato sui racconti di Liguori.
«Ralph amava i clubs», scrive l’autrice. «Erano un passatempo per lui – un luogo di ritrovo per amici, vecchi e nuovi, come Orson Welles che ci si fermava sempre per un drink a salutare. Ralph pensava fosse un genio». Il libro accenna ad almeno due incontri tra Liguori e Welles, tutti e due nel 1948, l’anno del rapporto di Manfredi, entrambi raccontati come casuali.
Il primo avvenne una mattina al Kursaal Beach Club di Ostia, presenti anche la moglie di Liguori, Elena, e una anonima fidanzata di Welles (definita «una ragazza di classe»: certamente Lea Padovani). I quattro avrebbero passato un’intera giornata insieme, dopodiché Welles, saputo che l’auto di Liguori era guasta, la trainò fino a Roma.
Il secondo incontro tra Welles e Liguori sarebbe avvenuto nell’ottobre del ’48, all’Excelsior di Roma. Liguori vide prima Luciano e subito dopo Welles, che diede prova della sua capacità di fare più cose contemporaneamente. «Mentre chiacchierava con Ralph, bevendo, mangiava un sandwich e scriveva una sceneggiatura, tutto nello stesso momento. Gli parlò di un nuovo film per il quale aveva appena firmato con la 20th Century Fox. Lui avrebbe interpretato Cesare Borgia e Tyrone Power avrebbe avuto il ruolo principale del conte Orsini. Welles stava anche lavorando a diverse altre cose in Italia».
I dettagli sono corretti: in quell’autunno Welles, ormai terminato Cagliostro, aveva ottenuto da Zanuck il ruolo di Cesare Borgia in Il principe delle volpi e stava preparandosi a iniziare Otello. Un altro piccolo indizio arriva dai ricordi di Joseph Cotten, collega e amico di Welles dai tempi gloriosi del Mercury Theater. Anche lui conosceva Lucky Luciano, o meglio: stava per conoscerlo.
Nel 1949, in Italia per girare con Joan Fontaine Accadde in Settembre, lo incrociò un paio di volte all’entrata dell’Excelsior di Napoli, finché una sera gli arrivò un biglietto in cui il gangster invitava lui, la Fontaine e il fotografo di Life Slim Aarons a prendere insieme qualcosa al bar o nella sua suite. Di lì a qualche giorno, Luciano forse lo sapeva, Cotten doveva recarsi a Venezia a trovare Welles, impegnato nelle riprese di Otello.
I tre stavano per accettare ma furono bloccati da un agente dell’Fbi che gli sconsigliò di farlo: parlare con Luciano avrebbe voluto dire scrivere il loro nome in un rapporto e creargli un mucchio di fastidi in dogana al momento di rientrare a New York. Luciano, qualche metro più in là, comprendeva benissimo ciò che stava accadendo.
Il fotografo prese il biglietto del boss e lo fece platealmente a pezzetti. «Mr. Luciano», scrisse poi Cotten nella sua divertente autobiografia Vanity Will Get You Somewhere, «con i suoi addolorati occhi scuri, ci concesse quel tipico gesto italiano in cui la testa s’inclina leggermente, e i gomiti sfiorano le costole, allungando poi entrambe le braccia a palme in su».
Uno dei più grandi registi del mondo e uno dei più pericolosi gangster mafiosi si sono dunque incontrati per parlare di un film. Difficile sapere se Welles si comportò con Luciano svicolando nel modo raccontato a Bogdanovich o se invece gli abbia dato anche un po’ retta come la testimonianza alla Leaming lascia immaginare. Che abbia potuto avere una certa attenzione verso Luciano si può anche comprendere. Alla fine degli anni Quaranta, in una nazione ancora sospettosa nei confronti dei “liberators”, un paese in cui pochi conoscevano l’inglese, qualunque americano aveva un debole per chiunque parlasse la propria lingua o provenisse come lui d’oltreoceano.
D’altra parte la vita di Welles non fu priva di quelle che si possono chiamare cattive compagnie, soprattutto quando tra loro poteva esserci qualcuno disposto a scucire dollari, o altra valuta in corso, per pagare i suoi sogni cinematografici. Colpisce piuttosto che Welles, nella sua intervista con Bogdanovich, parli del soggiorno italiano di Luciano come di un «esilio».
Nato nella Sicilia poverissima di Lercara Friddi, il gangster si considerava ormai più americano che italiano, e, visibilmente a disagio nella sua ex patria, sperava di tornare al più presto negli States. Welles, venuto alla luce nel Wisconsin, pensava in quel periodo di diventare italiano d’adozione, intrattenendo con le due patrie un rapporto di curiosità e ambizione mista a rimpianto, ed era in grado di comprendere bene il mood nostalgico del gangster.
In questo le figure di Welles e Luciano, opposte e speculari, sono anche curiosamente affini: un genio del cinema e uno del crimine che si ritrovano all’apice della propria esistenza nella scomoda posizione di reietti.
Luciano accarezzò a lungo l’ipotesi di una cinebiografia, e continuò a farlo ben oltre l’indisponibilità di Welles. Ne parlò lui stesso nel 1953, intervistato a Napoli da Joachim Joesten per il libro The Luciano Story (1954, co-autore Sid Feder). In quell’occasione il gangster si sottopose di buon grado alle domande, anche se l’idea di una biografia scritta da altri non lo trovava entusiasta, asserendo di voler scrivere lui stesso la sua storia.
«Ho avuto l’impressione», scrive Joesten, «che egli stesse coltivando l’idea di fare un film sullo stesso argomento; e che libro e film dovessero dimostrare la tesi che solo la società era responsabile della sua vita dedicata al delitto. Lucky disse precisamente: “Voglio mostrare il lato mio di tutta la faccenda. Ma il tempo per fare questo non è ancora venuto”.
Poi se la prese rudemente coi produttori cinematografici che lo avevano avvicinato per tentare di mungerlo: “Pretendono di far pagare a me tutte le spese del film!” disse, rosso di collera. “Ed hanno calcolato che il film verrebbe a costare circa 300.000 dollari. Uno stratagemma come un altro per cercare di spremermi danari. La gente del cinema crede che io nuoti in un mare di dollari”. Luciano disse che in ogni caso non avrebbe mai messo un soldo di tasca sua in una produzione cinematografica. Prevedeva anche che non gli sarebbero mancate le offerte, in seguito: “Mi pagheranno bene”, disse, “e non dovrò spendere nemmeno un cent di tasca mia!”».
In effetti, di produttori se ne sarebbe fatto avanti almeno uno: Martin Gosch, il cui fiore all’occhiello era Gianni e Pinotto a Hollywood. In 1961, secondo quanto asserì Gosch, Luciano era un uomo stanco e amareggiato, che aveva pure sofferto d’infarto. Il gangster si vide offrire da lui e dal suo partner Barnett Glassman un film biografico che, se da lui autorizzato, gli avrebbe fruttato 100.000 dollari il primo giorno di riprese e il 10% dei profitti riservati alla produzione.
Ma nuovi problemi arrivarono da Cosa Nostra, poco incline a lasciarsi ritrarre in un film con nomi e cognomi. Gosch disse di avere ricevuto da Luciano una nota scritta con la quale Meyer Lansky ordinava di mettere il film da parte - Lansky era uno degli esponenti più importanti della mafia di New York, e uno degli artefici della fortuna di Luciano; un ordine analogo era già arrivato da Tommy Eboli, il custode degli interessi di Vito Genovese.
Secondo quanto poi rivelato da Gosch, il gangster avrebbe comunque voluto accertarsi che qualcuno avrebbe divulgato la propria versione della sua vita: Luciano raccontò a Gosch le sue memorie in vari appuntamenti durante i dieci mesi successivi, chiedendo di pubblicarli in un libro non prima che fossero trascorsi dieci anni dalla sua morte.
L’ultimo incontro tra i due avvenne il 26 gennaio ’62, all’aeroporto di Capodichino. Fecero appena in tempo a scorgersi, poi Luciano crollò pallido sul pavimento. Uno dei boss più pericolosi e temuti di sempre se ne andò per un infarto, come un qualsiasi pensionato con le arterie intasate.
Dieci anni dopo, Gosch chiamò Richard Hammer, ex giornalista del New York Times, e cominciò a lavorare sul libro, che sarebbe stato intitolato The Last Testament of Lucky Luciano, lanciato da una campagna pubblicitaria che parlava di audiocassette registrate da Luciano. Ma quando, nel ’74, il libro arrivò in libreria, vennero fuori diverse polemiche: il volume conteneva diversi errori, le audiocassette probabilmente non erano mai esistite, e gli appunti originali erano stati gettati via dalla vedova di Gosch (morto per infarto poco prima della pubblicazione): si sospettò che una buona parte dei contenuti fossero stati prelevati da altri libri sulla mafia.
Nel suo Lucky Luciano. The Rise and Fall of a Mob Boss (2010), William Donati scrive che nel 1962 il progetto cinematografico non era crollato, e che in realtà Gosch era venuto a Napoli per parlarne ancora, alla luce del fatto che Cameron Mitchell era appena stato individuato come possibile interprete principale.
Il film che Orson Welles non avrebbe voluto fare e che Martin Gosch non avrebbe potuto realizzare, era stato alla fine diretto da Francesco Rosi, nel 1973, con il titolo Lucky Luciano e l’interpretazione di Gian Maria Volonté. Racconta più di ipotesi che di fatti concreti, lasciando intatti molti segreti del gangster, e forse a Luciano il risultato non sarebbe neanche dispiaciuto.
Nel frattempo, le poche righe di Welles a Barbara Leaming hanno seminato qua e là nuovi germogli d’ispirazione: nel 1994 Davide Ferrario ha messo insieme Luciano e Welles nel suo romanzo Dissolvenza al nero, da cui è stato tratto lo sfortunato Fade to Black, diretto da Oliver Parker nel 2006; Ciprì & Maresco nel loro ultimo film insieme (2003) attribuiscono a Luciano la committenza del Ritorno di Cagliostro, remake immaginario del film di Ratoff interpretato da Welles nel ’48.
In quanto a Welles, ignorò a lungo che Luciano fosse morto fra le braccia di un produttore cinematografico. Fu Bogdanovich a rivelarglielo, durante la sua intervista. “Non lo sapevo”, osservò Welles. “Sapevo che era stato avvelenato, certamente dalla mafia”. Sarà mica il caso di riaprire il dossier sulla morte di Luciano?