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 2023  gennaio 04 Mercoledì calendario

Il ritorno di Angelica

Difficile assai che nell’Italia dei lettori, considerati pure quelli d’un solo libro all’anno, non si conosca Il Gattopardo (1958), romanzo postumo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che incontrò subito una grande attenzione da parte della critica e un grande successo di pubblico, poi accresciuto anche dal film che ne ricavò nel 1963 Luchino Visconti. In quelle pagine Angelica Sedara poi Falconeri è senza dubbio il motore di tutta la vicenda: prima come strumento nelle mani dell’emergente e ricchissimo genitore, Calogero, curatore a Donnafugata delle proprietà e degli affari del Principe di Salina, poi come moglie del giovane aristocratico Tancredi, nipote affascinante ma nullatenente del suddetto Principe.
Di bellezza sfolgorante Angelica: ma mero e accondiscendente strumento dentro un destino già segnato, come lo era quello di tutte le donne del suo tempo, poco importa se privilegiate, come nel suo caso, in quanto consegnate a una vita che si consuma ai più alti livelli della società. Ora però, a distanza di quasi sessantacinque anni, con sicurezza se non addirittura con autorevolezza, questa donna prende finalmente la parola, candidandosi a protagonista d’una storia che ci era stata raccontata soltanto da voci maschili. Tutto questo accade in Angelica (Neri Pozza, pp. 302, euro 19), l’ultimo libro d’una prolifica e dotata narratrice siciliana, Silvana La Spina, che si è già a lungo misurata con diverse declinazioni del più praticato tra i generi letterari, dal giallo degli esordi, Morte in banca (1987), al romanzo storico dell’anno scorso, L’uomo del Viceré, non senza confrontarsi quando il caso, ma senza enfasi ideologica, con tematiche proprie anche del campo dei gender studies.
Ecco: «Mi chiamo Angelica Sedara, e da quando sono piccola so che farò grandi cose». Una consapevolezza generata da un padre ambiziosissimo e impegnato nell’immane impresa di scalare una società da secoli immobile come quella siciliana, dominata da una classe proterva e parassitaria: «Mio padre mi dice sempre che sarò fortunata, che un giorno avrò tutto quello che hanno le signore che vivono nel gran mondo». I fatti salienti che dobbiamo conoscere li conosciamo già, perché -come s’è già detto- ce li ha raccontati Tomasi di Lampedusa: il tramonto dei gattopardi e l’ascesa delle iene che li avrebbero sostituiti; l’alto lignaggio d’un giovane aristocratico decaduto e spiantato e le ambizioni nuove d’una fanciulla ricca ma di natali non nobili che, con le sue ricchezze, avrebbe rinsanguato una stirpe ormai sul punto di estinguersi; il matrimonio di interesse che ne sarebbe di necessità conseguito. Quello che invece ci mancava di sapere è come li avesse vissuti, tutti quegli eventi, la donna che si sarebbe poi non proprio felicemente maritata con Tancredi, quali fossero stati insomma l’infanzia, l’adolescenza e i suoi rapporti con la famiglia d’origine, con che sentimenti si fosse rivolta al principe di Salina (elegantissimo, con «quel profumo che lo avvolgeva come un abito da sera»), quale il tipo di relazione che avrebbe poi intrattenuto con la donna, l’aristocratica Concetta, alla quale aveva strappato l’uomo amato a cui per nascita era stata destinata. Ma andiamo con ordine.
Si parte da lì, in effetti: da quel padre in odor di mafia e in confidenza coi briganti; da quella madre sensualissima, ma selvatica e analfabeta, che «parla poco, si lava poco», discendente di Peppe «merda» che è così inspiegabilmente piena di odio e risentimento verso sua figlia. I risultati (e i traguardi) sono tuttavia eccellenti, i migliori auspicabili, per una donna bellissima cresciuta sin da subito dal padre in modo che potesse arrivare appunto a centrare gli obiettivi previsti, aiutata dal «talento» più adatto per riuscire nell’impresa: la «pazienza». Poco importa che alla fine non sia più bella come una volta: «Gli uomini non mi guardano più, ma sono, come ho detto, diventata molto autorevole», e tale ormai da dispensare persino consigli in politica ai tanti che la vengono a consultare. Tutta la vita passata a cercare di essere simile a quegli aristocratici che, invece, la invidiavano per quella forza che non avevano.
Tancredi è ormai morto: senza capire che aveva torto quando affermava che il mondo non poteva cambiare. Ma è Concetta il vero punto di riferimento di Angelica, l’interlocutrice costante e decisiva, alla quale, ormai scomparsa, si rivolge così: «È vero, il nostro Tancredi alla fine ha scelto me, ma non perché non ti amasse, era solo più innamorato di sé stesso». E aveva bisogno di una dote per fare carriera: «Non aveva capito, lo stupido, che la più forte eri tu. Con la tua dolcezza e determinazione sei stata il faro della mia vita».
Siamo dentro una vicenda che si spingerà sino agli inizi degli anni Novanta dell’Ottocento, come si può evincere dall’accenno finale alla morte del «bellissimo Rodolfo» d’Asburgo, l’arciduca figlio dell’imperatore Francesco Giuseppe e della principessa Sissi (con la quale Angelica era stata in grande confidenza a Vienna), morto suicida nel 1889 insieme alla «sua ultima amante, la piccola Maria Vetsera». A quel tragico evento Giuseppe Antonio Borgese aveva dedicato nel 1925 La tragedia di Mayerling: per dire che anche Rodolfo, altra presenza importante nel libro di La Spina, è un personaggio che aveva già trovato, come Angelica, un suo autore: a confermare la disposizione metaletteraria di questo romanzo, capace di rinvigorire, se non rigenerare, una tradizione che credevamo ormai conclusa in sé stessa.