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 2023  gennaio 04 Mercoledì calendario

Intervista a Lars von Trier

Tutto ebbe inizio con il pianto di una bambina proveniente dal fondo di un ascensore di un ospedale. A sentirlo un’anziana paziente, la signora Drusse, professione medium. Era il 1994, The Kingdom di Lars von Trier piombò come un meteorite sulla Mostra del Cinema di Venezia, quasi cinque ore di horror medicale in overdose di humor nero: fantasmi insepolti, feti in barattolo, cancri al fegato coltivati come trofei, lavapiatti con sindrome di Down a commentare tutto con il distacco epico di un coro greco. Osanna, invettive, scandalo, per una serie destinata a diventare di culto. E sempre a Venezia è arrivata nel ’97 la seconda parte e, lo scorso settembre, la terza e ultima, The Kingdom – Exodus.
L’uscita da un ospedale che, da quando ha saputo di avere il Parkinson, ha assunto per lei ben altro significato...
«La verità è che, sano o malato, ho sempre avuto paura degli ospedali», confessa il regista danese, autore di film come Dancer in the Dark, Dogville, Melancholia. Cacciato da Cannes nel 2011 per alcune dichiarazioni antisemite, superata la dipendenza da droga e alcol, Lars si è scoperto malato. Ma ha continuato a lavorare. E nei giorni scorsi ha ricevuto il premio Marco Melani, regista e critico scomparso nel ’96, celebrato per volere del comune di San Giovanni Valdarno e di Enrico Ghezzi.
«Scegliere un ospedale come sfondo di una storia lunga e spaventosa, è stata senza dubbio una scelta strana – prosegue —. Ma la mia teoria è che l’ansia e la creatività provengano dallo stesso luogo. Si tratta di utilizzare quell’energia in modo positivo».
Quando iniziò «The Kingdom» aveva alle spalle film come «L’elemento del crimine» e «Europa». Come le venne in mente una serie così diversa?
«In realtà era nata per fare un po’ di soldi e salvare la Zentropa, la mia casa di produzione. L’abbiamo presa alla leggera, l’abbiamo scritta in fretta e furia. Nessuno pensava a un tale successo».
E l’idea dell’ospedale dei fantasmi?
«A darmi lo spunto fu Belfagor, la prima grande serie europea che ho visto da bambino, ambientata al Louvre. A colpirmi era il fatto che il grande mondo del museo contenesse tante altre piccole storie. La scelta di un ospedale è stata in parallelo. I primi episodi erano horror, ma per via di un cast piuttosto pittoresco, si è insinuato un po’ di humour. Ne è uscito un cocktail divertente che mi ha spinto a ampliare la serie. Questi ultimi episodi si basano quasi solo sull’umorismo, che è più anarchico dell’horror. E più salvifico per il mio umore».
Quindi questa serie è stata una sorta di terapia?
«Per tutta la vita ho sofferto di depressione e sapevo che la cura era il lavoro. Per realizzare Exodus ci sono voluti 4-5 anni. Non è un’opera di cui vado particolarmente fiero, ma la collaborazione con gli attori ha funzionato in modo ottimale».
Resta l’eterno conflitto tra danesi e svedesi. Oggi metafora di altri scontri?
«Non ho mai fatto film con intenti morali ma solo seguendo il mio desiderio. Come tutti sono colpito e rattristato da ciò che stiamo trasmettendo ai giovani: ho due nipoti, odio vederli soffrire per colpa dell’ingenuità della mia generazione».
Sta pensando alla guerra?
«È inquietante come il meccanismo dell’attuale sia simile a quello di tutte le altre. Il diavolo ha creato il nazionalismo, che continua a crescere in noi anche se ci consideriamo pacifisti. Il nazionalismo e la religione inventati come difesa della civiltà hanno reso labili i confini tra bene e male. La mia generazione ha vissuto l’età dell’oro della democrazia senza rendersene conto, senza far nulla per fermare un negativo ritorno al passato».
Come auspica il futuro?
«Con il pianeta intatto».
Ha un nuovo progetto?
«Sto creando un database contenente ciò che ritengo di aver sperimentato durante il mio lavoro. L’idea è che chiunque si occupi di cinema o voglia farlo possa consultarlo. Sono stato molto fortunato, ho potuto realizzare quel che volevo quando volevo. Sento il dovere di trasmettere ciò che ho sperimentato».
Il cinema è sempre al centro della sua vita?
«È l’unica cosa che so fare, quindi devo continuare a farlo. Costi l’ansia che costi. A questo punto della vita sono morbosamente solo. Ho sempre creduto che la solitudine fosse una forza, ma devo rendermi conto di quanto possa essere dolorosa».