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 2023  gennaio 04 Mercoledì calendario

Biografia di Donatella Sciuto raccontata da lei stessa

Donatella Sciuto, 60 anni, madre francese, padre italiano, cresciuta nelle scuole internazionali, geneticamente europea (entrambi i genitori lavoravano per la Commissione Ue) prima donna rettore al Politecnico di Milano dal 1863, l’anno della fondazione dell’ateneo milanese. Tradotto: prima donna alla guida di un mondo di ingegneri ancora dominato statisticamente dagli uomini: tre studenti su quattro del Politecnico sono maschi.
«Nove su dieci se restiamo nel perimetro di ingegneria elettronica ed informatica».
Le sue materie... ciononostante possiamo dire: le cose sono difficili, ma possibili.
«È uno dei motivi per cui mi sono candidata rettore. Fino a un anno fa non ci pensavo minimamente».
E poi, cosa è successo?
«Ho pensato che se non avessi provato non avrei mai saputo se fosse stato possibile riuscirci. Non mi potevo far spaventare dal semplice fatto che non c’era mai stata una donna a fare da rettore. Sono sempre stata una persona che non accetta l’impossibile. Mi sono resa conto che la mia era una paura per la campagna elettorale (i rettori vengono votati da tutti i professori, Ndr) ma le paure vanno affrontate. E mi sono un po’ buttata».
Ha detto che non ci aveva mai pensato ma era già prorettore. Non è che talvolta alle donne che pure hanno le capacità manca un po’ di ambizione che invece negli uomini è talvolta addirittura in eccesso rispetto alle reali qualità?
«Sicuramente sì, noi donne dobbiamo almeno imparare a saper cogliere le opportunità anche – se necessario – facendo un salto nel buio. Gli uomini sono più abituati a farlo, su questo non c’è dubbio. Lo considerano più normale. Io avevo un problema anche di autostima a quel tempo: una pensa sempre di non farcela, ma questo è ciò che voglio trasmettere alla ragazze: se non ci provi non puoi sapere se riuscirai. Gli uomini si pongono meno questa domanda, ma per maggiore esercizio».
Quali sono le figure femminili che l’hanno ispirata?
«Amalia Ercoli Finzi: l’ho sempre trovata una forza della natura. Ha una capacità empatica incredibile»
Amalia Ercoli Finzi, la Signora delle comete, è stata la prima donna laureata al Politecnico in Ingegneria aeronautica (non esisteva ancora l’indirizzo aerospaziale al tempo). Lei la prima donna rettore (possiamo dire rettrice?). Un fisico direbbe che siete «entangled», come le particelle della fisica quantistica che hanno appena fatto vincere il Premio Nobel ad Alain Aspect, John F. Clauser e Anton Zeilinger.
«Lei è sempre stata un riferimento da quando sono tornata al Politecnico».
Anche lei ha fatto da pioniera: secondo i numeri l’informatica è ancora un argomento per maschi oggi, figuriamoci negli anni Ottanta. Lei si è laureata nel fatidico 1984, anno orwelliano del lancio del Mac. Era un po’ nerd?
«Quando mi sono iscritta a ingegneria elettronica con indirizzo informatico, quella che oggi è ingegneria informatica, noi ragazze eravamo il 2-3% dell’aula. Ma non sono mai stata nerd».
A maggior ragione non era difficile essere una minoranza in un mondo di maschi e nerd?
«Ero la più giovane laureata perché grazie ai miei genitori avevo fatto la scuola internazionale che finisce al quarto anno e in più ero andata a scuola a 5 anni, dunque i miei compagni di università avevano due anni in più di me, ma non è mai stata una difficoltà: non ho mai percepito la differenza. Al contrario è stata una difficoltà nella mia carriera perché mi sentivo sempre dire che ero troppo giovane, che avevo tempo e che c’erano persone più anziane ad aspettare».
Cosa direbbe oggi alle ragazze che si domandano se seguire un indirizzo scientifico e tecnologico in un mondo in cui le materie Stem (scienze, tecnologie, ingegneria e matematica) sembrano diventare più promettenti per il percorso di carriera?
«Secondo me le ragazze devono seguire sempre e per prima le loro passioni. Non deve essere una forzatura. Ma se tra queste passioni c’è la tecnologia allora non devono farsi convincere che non è per loro: siamo tutti portati nello stesso modo per le stesse cose».
Direbbe alle ragazze di ingegneria «non pensate a cosa l’informatica possa fare per voi ma a cosa voi potreste fare per l’informatica»? In altre parole: l’informatica ha bisogno di più ragazze?
«Con l’informatica si può avere un impatto sulla società: abbiamo visto che le ragazze hanno un atteggiamento che le porta a provare maggiore soddisfazione per quello che possono fare con questa disciplina che sta modificando il nostro mondo. Con la sola presenza di più donne si possono correggere anche molti problemi. Se pensa all’intelligenza artificiale è chiaro che se la lasciamo in mano a sviluppatori solo maschi non può che svilupparsi con dei bias al proprio interno».
Crede che basterebbe aumentare statisticamente le donne per ottenere un miglioramento degli algoritmi?
«Certamente perché abbiamo sensibilità diverse e in ogni caso la diversità è solo un valore. Diversità di genere ma anche di cultura. Tutti noi abbiamo dei pregiudizi per il solo fatto di esistere».
Stiamo portando dentro il mondo digitale la caverna dei pregiudizi di Bacone secondo lei?
«I pregiudizi sono un fattore intrinseco alla società in cui viviamo, ma non possiamo vivere di percezioni. Abbiamo bisogno di capire qual è esattamente la situazione in cui ci muoviamo per migliorarla».
Ma lei ha sempre voluto fare l’ingegnere?
«In realtà no. Mio padre era ingegnere e quello che mi aveva insegnato era sempre domandarmi il perché, come funzionano le cose. Questa alla fine è stata la mia scelta perché ingegneria mi dava la possibilità di capire. Mia madre era un avvocato che si occupava di diritti umani: alla fine mi piace pensare che ho messo insieme le due cose. Avevo due modelli quasi opposti e ho cercato di scegliere la mia strada anche se alla fine era ingegneria e l’ho capito quando ormai frequentavo le scuole superiori».
Ma se non avesse fatto ingegneria? Qual era il sogno di Donatella Sciuto da bambina?
«Il mio sogno era quello di fare sport, ma solo vagheggiato, non ero ancora così ambiziosa da pensare alle olimpiadi ma avrei voluto vivere nel mondo dello sport».
Quale?
«Da giovane ho fatto un po’ di tutto perché la scuola internazionale dava grande significato alle attività sportive per imparare a stare in gruppo. Dal nuoto al tennis. E giocavo nella squadra di pallavolo e di pallamano della scuola. Facevo anche un po’ di atletica».
Fa ancora sport?
«Adesso molto poco. Faccio due cose: crossfit all’interno del Politecnico, anche se dall’estate non è più stato possibile per gli impegni della campagna elettorale, e poi amo fare viaggi in bicicletta. Ho cominciato a farli anni fa con mia figlia quando era piccola. Erano viaggi un po’ spericolati: abbiamo fatto sia delle cose semplici, sia complicate come i giri dei laghi della Polonia. Ma dopo un po’ mia figlia è cresciuta e mi ha abbandonata preferendo l’equitazione. Ma ho continuato a fare viaggi con degli amici, come la route verte da Parigi a Londra».
Non si è mai pentita delle scelte fatte? Magari rimanere negli Stati Uniti.
«No, dopo la laurea ho vinto una borsa di studio per andare a fare il dottorato all’università del Colorado a Boulder. Quella esperienza mi ha consentito di imparare e apprezzare cos’è la ricerca. Poi ho scelto di volere portare in Italia quello che avevo imparato per costruire un gruppo di ricerca su queste tematiche».
Prima ha detto di cogliere le opportunità. In questo percorso ci sono state solo donne o anche figure maschili?
«Devo molto al mio relatore di tesi, la professoressa Maria Giovanna Sami. Ma tra le figure maschili una persona che devo ringraziare è l’ex Rettore Azzone perché è stato lui che mi ha portata fuori dal mio laboratorio».
Si ricorda un aneddoto in particolare?
«È stato buffo perché Azzone mi aveva chiesto se volevo partecipare alla sua campagna elettorale per scrivere un programma che contenesse le dimensioni di tutto l’ateneo. Io gli risposi: sì, però sappi che non sono una che porta voti, non ne sono capace».
I fatti l’hanno appena smentita...
«Vero, ma da allora ci sono voluti 12 anni per imparare a farlo. Comunque dopo quel contributo alla campagna non mi aspettavo che Azzone mi avrebbe chiesto di fare il prorettore dopo le elezioni vinte. Rimasi molto stupita e non me lo aspettavo, dissi sì un po’ da incosciente non sapendo in cosa mi andavo a infilare».
Anche qui si è mai pentita?
«No, ma è stato un caso perché senza quell’episodio non avrei mai pensato di seguire questo percorso. Poi certo devo ringraziare anche Ferruccio Resta, anche se con lui la collaborazione è stata molto più alla pari. Avevo già esperienza, anche se da Ferruccio ho imparato altre cose: la sua capacità relazionale è molto ampia. E dunque anche da lui ho appreso forzando un po’ il mio carattere che è un po’ meno sociale».
Cosa legge?
«Storia, narrativa e biografie di donne».
Quali? Marie Curie sarebbe coerente: dovette combattere contro pregiudizi che oggi per fortuna possiamo dire di avere superato. Quando morì il marito non la considerarono in grado di insegnare alla Sorbonne. E aveva già vinto il primo dei suoi due premi Nobel.
«Ruth Bader, la giudice costituzionale Usa, e Michelle Obama. Ma non voglio fare altri nomi. In generale ho appreso da tutte le biografie, sia di donne della scienza sia di altre discipline».