Corriere della Sera, 3 gennaio 2023
Storia del dialetto milanese
Sono stati necessari anni di impegnativo lavoro critico, traduzioni, note esaustive, selezione di autori e testi antologizzati. Si è appena conclusa l’impresa di offrire non solo ai cultori, ma anche a un pubblico il più vasto possibile di non specialisti quel prezioso strumento che mancava per comprendere meglio la genesi delle opere in vernacolo meneghino. Un itinerario che si articola nei secoli, dal Duecento fino ai nostri giorni. Il merito va attribuito a Silvia Morgana, già ordinaria di Storia della lingua all’Università degli Studi di Milano, accademica della Crusca e in questa occasione coordinatrice di un team di numerosi studiosi di levatura internazionale. Nascono così, su progetto di Enrico Malato, i due tomi de La letteratura dialettale milanese in libreria per Salerno editrice, con 32 tavole a colori.
Si tratta di un progetto portato a termine grazie alla collaborazione dell’Istituto lombardo Accademia di scienze e lettere e del Centro nazionale di studi manzoniani, con il patrocinio dell’associazione culturale Famiglia Meneghina – Società del Giardino e del Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario, nel 2021, della morte di Carlo Porta (1775-1821). L’opera è dedicata alla memoria di Dante Isella e Maurizio Vitale, due tra i massimi critici e filologi del Novecento. Pare necessario sottolineare che, rispetto agli altri vernacoli lombardi, il meneghino è da considerarsi una «lengua» a tutti gli effetti sia in quanto è provvisto di una prolifica e costante produzione letteraria, sia perché risulta ancora oggi il linguaggio internazionale della Lombardia, il più compreso dall’Oltrepò Pavese fino ai Grigioni.
Il primo volume dell’opera spazia all’interno di un arco temporale di cinque secoli, da Pietro da Barsegapè e Bonvesin da la Riva, il maggior poeta duecentesco del Nord d’Italia, a una bosinata (composizione satirica) del 1798 contro le mode rivoluzionarie. Nel mezzo, tra decine di altri scrittori, in pieno Rinascimento emergono poeti quali Giovanni Paolo Lomazzo, noto inoltre come pittore, Varrone, che secondo il Porta fu l’autentico capostipite della tradizione dialettale meneghina, e Fabio Varese. Di quest’ultimo Angelo Stella, allievo di Maria Corti, già ordinario all’Università di Pavia e presidente del Centro nazionale di studi manzoniani, traccia una nota introduttiva di geniale effetto: cantore e maestro di cappella, Varese scrisse parecchi sonetti di rara umanità, schiettezza e verismo come quello dedicato A una meretrice che lo aveva abbandonato oppure un altro dal titolo Sopra l’impotenza amorosa.
Ad analizzare Carlo Maria Maggi, il fondatore del teatro in lingua milanese, è la stessa curatrice Silvia Morgana. Nel passaggio dal Barocco verso l’Illuminismo eccoci di fronte a Meneghino, la maschera che il Maggi trasformò nel simbolo del tipico popolano milanese. Autore di 35 poesie in vernacolo perlopiù d’occasione, Maggi si distinse per il linguaggio dagli innovativi esiti fonomorfologici nelle sue commedie Il manco male, Il Barone di Birbanza, I consigli di Meneghino e Il falso filosofo. Scrive Morgana: «Si assiste a un’emancipazione dai moduli strutturali e linguistici del teatro dell’arte e all’introduzione di un “plurilinguismo verticale” che caratterizza i diversi livelli sociali rappresentati nel suo teatro... Il dialetto nella sua varietà bassa, parlata dagli incolti, è considerato la schietta espressione di un mondo incorrotto, di autentici valori morali».
A seguire il Settecento con le rime di Carl’Antonio Tanzi, che si diede alla scrittura in versi soprattutto nell’ambito delle recite dell’Accademia dei Trasformati, e dell’amico Domenico Balestrieri, buongustaio e ammiratore sfrenato delle donne. Ma Balestrieri assume le vesti di un autentico maestro per la traduzione de La Gerusalemme liberata travestita in lingua milanese, un modello verso cui si dichiara debitore Carlo Porta, che lo riconosce suo punto di riferimento ideale. Difatti Porta inizia la propria carriera poetica pubblicando nel 1792 un almanacco intitolato El Lava piatt del Meneghin ch’è mort, dove Meneghin è precisamente Balestrieri morto nel 1780, mentre Porta desidera umilmente essere considerato a guisa del suo lavapiatti.
Illuminante è la nota critica di Pietro De Marchi, valente poeta e da decenni professore di Italianistica all’Università di Zurigo, sui quattro sonetti dialettali di Giuseppe Parini. Sodale di Tanzi e Balestrieri, Parini si schiera apertamente contro le asserzioni di Onofrio Branda, che nel dialogo Della lingua toscana aveva disprezzato in generale Milano e in particolare il vernacolo meneghino.
Il secondo tomo dell’opera comprende autori e testi dall’Ottocento al mondo contemporaneo. Di Carlo Porta, considerato alla stregua di Omero o Dante per la letteratura milanese, vengono antologizzati soltanto tre poemetti, Desgrazzi de Giovannin Bongee, La Ninetta del Verzee e Offerta a Dio (La preghiera), e quattro sonetti. Se ne rammarica nell’introduzione la curatrice, che giudica «mortificante, ma inevitabile in un’antologia, ridurre alla selezione obbligata di pochi testi l’opera di Carlo Porta», autore di capolavori che influenzarono Giuseppe Gioachino Belli fino a spingerlo a scrivere in vernacolo romanesco, dopo aver compreso dalla lettura di Porta la dignità del dialetto e la forza satirica del realismo popolare.
Una osmosi più concreta quella con Manzoni, influenzato in certi passi de I promessi sposi dalle poesie portiane, come ritiene Guido Bezzola nel volume Le charmant Carline (il Saggiatore, 1972), e dalla comitragedia Giovanni Maria Visconti Duca di Milano, scritta a quattro mani da Porta e Tommaso Grossi, bloccata dalla censura austriaca. Si assiste poi alla felice esplosione di scritture drammaturgiche di grande impatto qualitativo con il teatro di Edoardo Ferravilla e quello di Carlo Bertolazzi, noto per il suo celebre affresco popolare di El nost Milan, portato al successo nel 1955 al Piccolo Teatro. Mentre il Novecento meneghino viene dominato soprattutto dalla forza espressiva dell’ars poetica di Delio Tessa, che trova le proprie matrici nella Scapigliatura e nel Decadentismo. In Tessa si riscontra una decisa diffidenza verso gli uomini e le loro istituzioni in L’è el dì di mort, alégher! e De la del mur. E veniamo ai nostri giorni con Franco Loi, un caso irripetibile: di padre sardo e madre emiliana di Colorno, trascorre l’infanzia a Genova. La famiglia si trasferisce a Milano, dove Loi comincia a integrarsi da ragazzo ascoltando gli altri parlare in vernacolo. Quando decide di fare poesia, Loi crea un pastiche linguistico singolare: scrive così come si pronuncia, spesso si tratta di un milanese d’invenzione, mai abitualmente parlato e per questo dagli esiti straordinari come sostiene il linguista Gian Luigi Beccaria, citato da Silvia Morgana nell’introduzione.
A concludere l’opera un felicemente inatteso capitolo dedicato alle canzoni d’autore con O mia bela Madonina di Giovanni D’Anzi, Ma mi di Strehler, Cansun de quand s’eri giuvina e stavi in Luduvica di Dario Fo, e l’emozionante El portava i scarp del tennis di Enzo Jannacci. Perché il dialetto a Milano è la lingua dell’anima, dell’appartenenza, dell’identità, dell’accoglienza, è la voce di un intero popolo che odia l’omologazione, i pregiudizi e gli stereotipi.