Corriere della Sera, 3 gennaio 2023
Se evocare il passato non è nostalgia
Ogni volta che entriamo in un’annata che termina con 3, bisognerebbe ricordarsi del 1963 e celebrarlo come merita. Perché, anche senza considerare la neoavanguardia nata in quel dicembre, il 1963 è stato un anno particolare in letteratura. Pensate: La tregua di Primo Levi, premio Campiello, e Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, premio Strega. Finalista, tra gli altri, Beppe Fenoglio con Un giorno di fuoco (Fenoglio era morto da due mesi quando uscì da Garzanti quel libro che conteneva anche Una questione privata). Il Viareggio andò ai Racconti dell’outsider Antonio Delfini (oggi riproposto come il più grande dei minori) e per la saggistica a Sergio Solmi, uno dei maggiori poeti e saggisti del secolo. Il premio Bagutta fu assegnato a Ottiero Ottieri, per il suo inquietante diario del lavoro industriale, La linea gotica. In quell’anno uscirono, per Feltrinelli, un romanzo impensabile come Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino e Libera nos a Malo, l’esordio sorprendente di Luigi Meneghello. Oltre a Levi e alla Ginzburg, Einaudi pubblicò Il consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia, i racconti de Lo scialle andaluso di Elsa Morante e qualche libro del quarantenne Italo Calvino: La giornata di uno scrutatore, La speculazione edilizia e Marcovaldo. In quei mesi Umberto Eco mandò in libreria con Mondadori il suo Diario minimo, ma soprattutto: in primavera apparve, per Einaudi, La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda che in luglio avrebbe vinto il premio internazionale Formentor. E la poesia? Un piccolo editore come Scheiwiller pubblicò Nel magma di Mario Luzi. Bisogna pur dire, restando nei dintorni, che neanche il 1962 e il 1964 sono anni da buttar via: basti citare La vita agra di Bianciardi, Memoriale di Volponi, Il male oscuro di Giuseppe Berto, Poesia in forma di rosa di Pasolini. Ora, si avverte una strana aria per cui chi evoca con ammirazione quel tempo, magari per confrontarlo con il grigiore attuale (mancanza di coraggio nello spingersi verso terre e linguaggi nuovi), inciampa nel sospetto di essere un penoso nostalgico o un fastidioso disfattista (oggi lo sarebbero anche Dante e Leopardi per i quali il confronto ammirato con il passato era vivificante). Come se uno dei vizi più disastrosi dei nostri anni non fosse la presunzione di essere immensi a prescindere.