Corriere della Sera, 3 gennaio 2023
Ricordi di Neri Parente
«Suonai al campanello. Un cameriere spalancò un cancelletto cigolante e due cagnacci neri mi corsero incontro abbaiando e digrignando i denti. Ero stato scelto per co-dirigere Fantozzi contro tutti, dopo l’addio di Luciano Salce, perché avevo 29 anni, dunque figura poco ingombrante, ma in compenso già rotto a qualunque catastrofe. Mi era stato assicurato che Villaggio era entusiasta di lavorare con me. Venni condotto in salotto. La moglie Maura passò a salutarmi ma poi sparì, lasciandomi solo. Dopo un bel pezzo, si aprì un ascensore e apparve Paolo, in sandali e caffettano. “Scusi, lei chi è?”. Mi presentai. “Ah, quindi sarebbe lei, Neri Parenti? Credevo fosse un altro”. “Se vuole me ne vado”. “Già che c’è, resti”».
Accoglienza festosa. Non prometteva bene, invece avete girato insieme una ventina di film, tra cui 7 della saga di Fantozzi. E condiviso scherzi terribili sul set. Come al povero Filini/Gigi Reder.
«Paolo era cattivissimo, eppure lo amavano tutti. Se scopriva un tuo punto debole eri finito. Gigi era fifone – aveva paura pure delle mosche – e superstiziosissimo. Se nel copione c’era una scena, che so, di loro due che scendevano da una scala, ci inventavamo che Paolo, dietro di lui, dovesse tenere in mano una lancia o una piccozza. “Eh, ma sei poi scivola mi ammazza”, gemeva lui, preoccupato. Una volta lo mandammo a prendere a casa da un carro funebre, sostenendo che in garage era rimasto solo quello. O gli facemmo trovare nel camerino un prete con paramenti e olio per l’estrema unzione».
Massimo Boldi, incauto, gli chiese consiglio prima del debutto al Derby.
«Aveva il terrore di impappinarsi. Paolo gli suggerì di masticare ghiaccio tritato con succo di limone prima di uscire in scena. “Vedrai, ti scioglie la lingua”. Invece gliela bloccò».
Durante le riprese di «Scuola di ladri», fu ancora Boldi, la vittima, più Lino Banfi.
«Villaggio si era appassionato al sushi: invece del cestino, si faceva portare il pranzo da un ristorante giapponese. Massimo e Lino, incuriositi, vollero provarlo. “Certo, domani lo ordino pure per voi”. Ci trovammo nella sua roulotte. Davanti a quei graziosi bocconcini serviti su minuscoli vassoietti pieghettati, come pasticcini, i due poveretti se li infilarono in bocca con tutta la carta. Stavo per fermarli, Paolo mi prese per un braccio sussurrando: “Zitto! Vuoi rovinare uno dei momenti più belli della mia vita?”. E rivolto a loro: “Vi piace, cari?”. “Insomma...”».
Quella volta che scappò in mongolfiera...
«Giravamo in Kenya. A nostra insaputa Paolo aveva prenotato un giro panoramico. Le riprese però tardavano. “Vado un attimo in bagno”, ci disse. Non tornava più. A un tratto lo vidi passare in cielo sopra la mia testa. Salutava con la mano. “Non preoccuparti, recupero lunedì”».
A rallegrarvi – suo malgrado – provvedeva il produttore esecutivo Bruno Altissimi, come racconta nel libro «Due palle di Natale».
«Si lanciava in francesismi improbabili, parlava a orecchio. Proponendo per la scenografia “le sedie tonnate” (Thonet), raccontando di aver viaggiato “sul Boiler 747” (Boeing). Un giorno mi diede appuntamento “a piazza Pioxi”. La cercai invano, chiesi lumi a un vigile, ai passanti. Mi soccorse un prete: “Forse intendeva piazza Pio XI”. Lui e Claudio Saraceni li avevamo soprannominati “Rubbà e Accattonà”, perché i soldi li metteva Cecchi Gori. Quando lo scoprirono, si offesero. Per farci perdonare millantammo di presentargli un socio arabo, tale Arraffat».
Suo padre Giuseppe era Rettore dell’università di Firenze, realizzò il primo censimento in Cina e creò il servizio opinioni della Rai.
«Un padre “domenicale”, non lo vedevamo mai. E quando era a casa ci trascinava per forza al maneggio di Cercina, noi quattro disgraziati recalcitranti, era un grande cavallerizzo. Mi tornò utile quando, da aiuto di Pasquale Festa Campanile, sul set de Il soldato di ventura con Bud Spencer, in Tunisia, dovevo dare direttive agli attori che giravano una scena a cavallo. La radio non funzionava, li raggiungevo al galoppo».
Quando partì per Roma, nel 1970, papà le requisì l’auto.
«Una Bianchina, la stessa di Fantozzi. Mi voleva professore universitario, io invece volevo fare lo sceneggiatore. Nel 1968 vinsi un concorso per apprendista giornalista, mi mandarono alla Rai. E da lì fui spedito sul set di Addio fratello crudele , primo film coprodotto dalla tv pubblica, con mansioni imprecisate».
E apprese le tre regole fondamentali.
«Me le declamò il direttore di produzione Giorgio Adriani: “Primo: nun tocca’ i cavi elettrici. Secondo, stai sempre trenta metri dietro la macchina da presa. Terzo: nun rompe er...”».
Con Charlotte Rampling però ebbe il suo momento di gloria.
«Era infuriata con la produzione perché non c’era acqua calda e aveva trovato un topo nella roulotte. “Ma che vole questa, ma chi la capisce?”, si interrogavano quelli. Di madre inglese, intervenni nella discussione. Adriani si illuminò: «Parli stragnero? Allora nun te move più da qua, stammi vicino tutti i minuti della vita tua”. Poi mi portò con lui a girare L’uomo della Mancha con Peter O’ Toole e Sophia Loren. E mi innamorai del cinema».
Fu l’aiuto di Steno, il papà dei Vanzina.
«Quando c’era qualcosa che non andava sul set, d’accordo con me, fingeva di arrabbiarsi e faceva una piazzata. “Me ne vado, basta!”. E spariva. Terrorizzati, tutti mi supplicavano di andarlo a cercare. E io partivo col motorino. “Ci provo, non so se lo trovo però, eh”. Lo raggiungevo in un bar. “Puoi tornare, sono preoccupati al punto giusto”. In Sudafrica, mentre giravamo Piedone l’Africano, ripeté la scenata, minacciando di ripartire per l’Italia. E mi costrinse, nottetempo, a scassinare i cassetti degli uffici della produzione per recuperare biglietti e passaporti».
Il suo primo film da regista – John Travolto… da un insolito destino – nel 1979, non fu un grande successo.
«Era proprio una schifezza. Nello stesso giorno uscì anche il primo film di Carlo Vanzina, Figlio delle Stelle, con Alan Sorrenti. Li proiettavano in due cinema attigui in piazza Giulio Cesare. Io e Carlo, seduti su una panchina, controllavamo l’affluenza. Non venne nessuno, né per me né per lui. A parte una comitiva di coreani che credevano di vedere davvero un film con Travolta. L’attore principiante, un cuoco, gli somigliava tantissimo. Alla fine il produttore Lombardo lo vendette in tutto il mondo, pure in Gabon».
Set movimentati, quelli dei Cinepanettoni.
«Ormai purtroppo un genere finito, per mancanza di attori, di soggetti e di soldi. Per il primo, Vacanze di Natale ’95, girammo ad Aspen, in Colorado. Non c’era neve, perciò salimmo a 4 mila metri. Solo che, non essendo degli sherpa, si restava senza fiato dopo tre passi. Per Natale a Miami beccammo l’uragano Katrina. Chiusi in albergo con i sacchetti di sabbia alle finestre, vedemmo volare automobili, lampioni, alberi».
Natale a New York invece, nel 2001, fu cambiato in corsa.
«Avevamo già girato mezzo film, ultime scene proprio a Fiumicino, prima di imbarcarci. Era l’11 settembre. Attentato alle Torri Gemelle. Non partimmo più. Aurelio de Laurentiis non si voleva arrendere. “Tra qualche giorno sarà tutto a posto, ve lo garantisco”. Gli attori insorsero. “Che ne sai? Hai parlato con Bin Laden?”. “Non ancora. Renata, mi cerchi il signor Bin Laden!”, ordinò lui alla segretaria, che non batté ciglio. “Certo, dottore, casomai lascio un messaggio”. Ripiegammo su Amsterdam e il titolo diventò Merry Christmas».
Per Tifosi (1999) scritturò Maradona.
«È stata dura. Accettò ma alle sue condizioni: non girare a Napoli, farlo in pochi giorni, poter interrompere appena era stanco. Affittammo un appartamento a Roma. Fino all’ultimo non sapevamo nemmeno se si sarebbe presentato. Arrivò di notte, scusandosi con tutti. Ci fece disperare. Alla fine mi regalò la sua maglia dell’Argentina con la dedica “Al mio regista preferito”».
Natale sul Nilo (2002) incassò 28 milioni.
«Non riuscimmo a girarlo sul Nilo perché è come un’autostrada e non si può restare fermi, devono passare le altre navi. Così ci spostammo sulla riva del lago Nasser. Tramonto spettacolare davanti al tempio di Abu Simbel. E la voce di Enzo Salvi che discuteva animatamente con un tale di Ostia incaricato di comprare le cozze: “Mi raccomando, no quelle de profondità eh”».
Il mitico duo Boldi-De Sica.
«Con Christian nel 1975 avevamo girato insieme Conviene far bene l’amore, il suo primo film e anche il mio da aiuto regista di Pasquale Festa Campanile. “Tu che sei pratico, spiegami qui come funziona”, mi chiese. “Con me caschi male, non lo so nemmeno io”. Massimo era un po’ geloso di Christian perché, in quanto romano, era convinto che avesse più voce in capitolo, non era così. Per sicurezza contavamo le parole della sceneggiatura in modo che fossero uguali».
A un certo punto la coppia scoppiò.
«Non hanno mai litigato, anche perché fuori dal set non si frequentavano, però andavano d’accordo. Si separarono per un mero problema contabile. Boldi discusse con de Laurentiis per il rinnovo del contratto e, scontento, se ne andò alla Medusa. Aurelio si impuntò e nel 2006 fece Natale a New York solo con Christian, mettendogli accanto Massimo Ghini, Claudio Bisio, Sabrina Ferilli, Fabio De Luigi. E al botteghino vinse lui, incasso quadruplo».
In 52 film, quanti attori cani ha incrociato?
«Nessuno, li scelgo sempre io, se non sono bravi non li prendo. Il problema semmai c’è con quelli non professionisti, come Emilio Fede e Vittorio Sgarbi. Beh, loro un po’ cani erano».
Starlette raccomandate?
«Se non erano proprio eccelse, bastava scrivere una sceneggiatura semplice, battute facili, mica dovevano fare la Loren ne La Ciociara».