La Stampa, 3 gennaio 2023
Le piante ci chiedono conto dei nostri errori
Uno dei capitoli più affascinanti della biologia contemporanea è quello che studia l’intelligenza delle piante, fin qui (ingiustamente) sottovalutate nella scala gerarchica dei valori della vita, a vantaggio degli animali. Malgrado le intuizioni di Darwin, abbiamo dovuto attendere gli ultimi decenni per veder fiorire (è il caso di dirlo) studi rivoluzionari come quelli della ricercatrice canadese Suzanne Simard, i quali hanno dimostrato che le piante rappresentano di fatto un superorganismo collettivo, estremamente avanzato, in cui tutto si tiene.
Le piante sono esseri di raffinata sensibilità, capaci di "leggere" l’ambiente circostante, elaborare informazioni dettagliate, organizzare le proprie azioni, sviluppare la memoria e dunque l’apprendimento, comunicare, segnalare pericoli, fornirsi mutua assistenza attraverso lo scambio di nutrienti fondamentali. Esiste dunque un Wood Wide Web in tutto simile alle reti Internet che scambia segnali elettrici e chimici sotto i nostri piedi ignari e un po’ ottusi, e confonde la boria ridicola degli uomini, convinti di rappresentare il punto più alto dell’evoluzione. Non è un caso che le piante rappresentino il 99,7% della biomassa terrestre, lasciando agli animali un misero 0,3%: segno che il loro modello di sviluppo, fondato su una immobilità non violenta e iperconnessa, forte di una collaudata socialità, è vincente. Gli uomini stanno cominciando a capirlo solo adesso.
In Italia queste ricerche appassionanti hanno un protagonista di valore in Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio di Neurobiologia vegetale dell’Università di Firenze, divulgatore di culto, e autore di volumi di meritata fortuna, quali Plant Revolution (Giunti 2017) e La Nazione delle Piante (Laterza 2019).
Ora Mancuso si è fatto tentare dalla narrativa con una favola-apologo, La tribù degli alberi (Einaudi), che dà parole e caratteri umani (comprese la suscettibilità e la dispettosità) alla vasta comunità di piante che vive nell’immaginaria contrada a Edrevia, nella conca di Pian di Mezzo, dolcemente aperta sul mare. Quasi un romanzo di formazione che ha per protagonista Laurin, detto il Piccolo (malgrado cresca impetuosamente più dei coetanei), affamato di conoscenza, smanioso di sviluppare la propria identità, di rendersi utile alla collettività. Il popolo degli alberi è diviso in clan. Ci sono i Cronaca, dediti al rilevamento dei dati che depositano in archivi sterminati. Abili comunicatori, custodiscono la memoria del gruppo e non amano troppo le novità. I Dorsoduro sono dei ricercatori dall’aria scontrosa e solitaria, alieni dalle distrazioni. I Gurra, temprati da una storia difficile di milioni di anni, hanno l’aria di guerrieri che difendono la comunità, ma sanno elaborare canti epici. I Terranegra, artisti e giocherelloni, sono bravi a organizzare feste in cui gli alberi si inebriano di alois, distillato di succo di viola del pensiero dal bel colore blu, che produce una perfetta beatitudine. I Guizza vantano i migliori analisti dell’ambiente: "pesavantaggi" o "scioglinodi" che orientano le scelte collettive. Tutti provano una sincera compassione per gli animali, costretti a uccidere per sopravvivere.
I clan hanno anche una sorta di venerando patriarca, il vecchio Primus, che unisce una bellezza possente alla saggezza dei millenni: tanti ne occorrono per imparare a gestire i sofisticati messaggi inviati dalle radici. Venerano un dio che si chiama Yggdrasill, ma potrebbe benissimo essere il Sole, dei cui raggi registrano ogni minima variazione.
Apprendista entusiasta, il giovane Laurin si avventura con delizia nei più profondi livelli ipogei dove sono custoditi i tesori di una sterminata biblioteca, quasi la banca dati della comunità. E scopre che negli ultimi duecento anni si sono susseguiti, con frequenza sempre maggiore, eventi climatici molto preoccupanti: siccità, inondazioni, incendi, venti intensi, aumento delle temperature. È cambiata anche la fauna: arrivano parrocchetti, insetti, rettili e funghi mai visti prima. Cosicché per contrastare l’aumento di CO2 calcola che bisognerebbe aumentare il popolo degli alberi del 40%. Davanti a un pericolo del genere i clan, riuniti a consulto, sono unanimi: Edrevia, come le società umane, può funzionare soltanto se ogni singolo componente si impegna a farla funzionare. Che è un po’ il succo dell’apologo del vecchio Menenio Agrippa.
L’impresa di far parlare soggetti non umani aveva affascinato anche Primo Levi, che cercava un linguaggio per comunicare con gli animali, e Italo Calvino, che inseguiva perfino l’immedesimazione con la materia inanimata, perché l’espressività nasce proprio dall’inesauribile incontro-scontro di linguaggi diversi. Dare voce alla radicale alterità delle piante, al loro modello eticamente superiore, è una di quelle sfide impossibili che la letteratura è obbligata a darsi. Mancuso, pur consapevole che antropizzare le piante significa anche sminuirle un po’, la affronta con garbo divertito, e i suoi personaggi finiscono presto per diventarci famigliari. Simulando emozioni umane, accrescono la nostra ammirazione per la loro stupefacente professionalità, e ci presentano sorridendo il conto dei nostri difetti di individualisti autodistruttivi, incapaci di trasformare l’io in un noi.