il Giornale, 3 gennaio 2023
Il manifesto di Antonio Delfini
Solo Antonio Delfini (1907-1963), il geniale scrittore di Modena, ingiustamente trascurato dalla critica e maltrattato dalla editoria, poteva consegnare alle stampe Il Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia (un titolo, un ossimoro). Finalmente Garzanti ristampa l’antologia di pezzi brevi che Cesare Garboli mise insieme, con qualche incertezza filologica, purtroppo rimasta anche in questa edizione. Minuzie, tutto sommato, che non impediscono al lettore neofita la gioia della scoperta di un grande autore. Delfini, e si capisce anche dal Manifesto, occupa una posizione tutta sua nella letteratura italiana. I suoi racconti, sospesi tra sogno e satira, sono tra i più belli del Novecento. Sono da leggere sia quelli inclusi nel Ricordo della Basca (Einaudi) ma anche quelli, più tardi, di Misa Bovetti (Scheiwiller), una esilarante cavalcata tra le ipocrisie italiane. Riciclati, faccendieri, ignoranti con la laurea, industriali orrendi, c’è di tutto. I suoi Diari (Einaudi, il titolo è errato, Quaderni è quello corretto) sono forse la migliore, e più divertente, descrizione dell’opportunismo degli intellettuali, lesti, alla caduta del Fascismo, nell’imboscarsi o nel cambiare casacca, per restare sempre al potere, con ritratti esilaranti di Eugenio Scalfari, Gian Carlo Fusco, Mario Pannunzio e tutto il giro delle Giubbe rosse, il famoso caffè fiorentino. Le sue poesie, fortemente volute da Giorgio Bassani, che le fece pubblicare da Feltrinelli, sono travolgenti e anche un esempio di rima petrosa, dantesca, in pieno Novecento. Non a caso, Delfini si definiva l’antipetrarca. Le Poesie della fine del mondo, scritte in seguito a una delusione amorosa, sono un concentrato irresistibile di cinismo, cattiveria e umorismo. Ci van di mezzo tutti, potenti, meno potenti, politici, scrittori e naturalmente il grande rovello di Delfini: le donne. Se la prosa guarda più alla Francia che all’Italia, la poesia guarda negli occhi il Duecento e il Trecento, Guido Cavalcanti e Dante in testa.
Il Manifesto per un partito conservatore e comunista e altri scritti (a cura di Cesare Garboli, Garzanti, pagg. 314, euro 20) è un’antologia di scritti sulla Seconda guerra mondiale, l’antifascismo immaginario di molti fascisti della prima e della penultima ora, il «disumanesimo» italiano, ovvero il disprezzo dei governanti per i governati, la mancanza di una cultura liberale, per cui nel nostro Paese si può scegliere al massimo tra il Dirigismo liberista e il Liberismo dirigista. Alcuni articoli sono tratti da riviste che Delfini scriveva e stampava a sue spese. Le vendeva per le strade di Modena.
Il piatto forte è il breve ma interessante Manifesto. Il tono è insolitamente serio. A temperarlo con una dose di ironia ci pensa la nota finale che spiega le circostanze in cui nacque. Nel marzo 1951 «il signor G. P.» si presenta a Viareggio (totalmente squattrinato) con l’idea di fondare una rivista e chiedere lumi a Delfini. Lo scrittore accetta: «Vivo dalla guerra in qua abbandonato dai miei vecchi amici che dirigono tutti grandi giornali per arricchire i neo-miliardari ed è logico che rimanessi tanto emozionato da non sapere in principio quali pesci pigliare per stendere il progetto di un giornale che avrebbe dovuto schiacciare tutti gli altri pettegoli ebdomadari della Repubblica». Il Manifesto è il frutto di questo lavoro. La rivista, naturalmente, finisce ancora prima di cominciare. Morale: «Sappia ognuno che se questo partito nascerà, il Manifesto che l’ha fatto nascere è nato per puro caso, forse per miracolo. Io l’ho pensato, ma perché non mi riusciva di concretare il programma di una rivista. G. P. voleva in definitiva sbarcare soltanto il lunario, e si è trovato a essere il secondo autore del Manifesto». In Scritti servili, Cesare Garboli rivela l’identità di questo anonimo estensore: Giuseppe Paganelli, nato a Cattolica, in Romagna, nel 1893. Amante di una nipote di Mussolini, passò guai per antifascismo ma riuscì sempre a cavarsela per il rotto della cuffia. Noto come «scroccone di genio» ad altri scrittori, ad esempio Alberto Moravia, Paganelli era alla costante ricerca di soldi.
Cosa c’è nel Manifesto? I partiti del dopoguerra «hanno serbato i caratteri dei prodotti importati» e non colgono l’identità del Paese, intessuta di cattolicesimo, civiltà contadina e forti autonomie locali. L’unità d’Italia, tanto cara ai comunisti, è un «falso» imposto dal Risorgimento e rilanciato dal fascismo. Delfini propone di invertire i termini della politica economica italiana: dirigismo «di tipo sovietico» nella gestione del grande capitale, liberalizzazione del commercio, conservatorismo nella proprietà terriera. L’ultimo punto chiarisce subito come questo documento sia radicato nella biografia di Delfini, possidente terriero dalle rendite sempre meno ampie, taglieggiato dalle banche, minacciato dai capitalisti che vorrebbero comprare i suoi campi per un piatto di lenticchie. Questo macroscopico conflitto d’interessi non è però sufficiente a retrocedere il Manifesto a una bizzarria dettata dal risentimento. Stampato nel 1951 da Guanda, la casa editrice dell’amico Ugo Guandalini, il Manifesto porta alle estreme conseguenze la polemica contro il grande capitale alleato della politica per spogliare lo Stato e i cittadini di ogni ricchezza. Meglio che le industrie siano gestite dagli operai in accordo con i padroni, espropriati ma non completamente. È un tipo di collettivismo dal forte sapore corporativistico più che socialista.
La proprietà terriera tutela la durata delle famiglie; riduce le invidie perché chi possiede, «possiede cristianamente»; esclude la speculazione e l’investimento ad alto interesse; crea una classe dirigente responsabile. Per questo si possono trovare correttivi al fine di ridurre la presenza di latifondi troppo estesi ma senza stravolgere una realtà secolare.
Altra cosa è l’industria. I capitalisti hanno passato il segno. Gli affaristi (industriali, feudatari del commercio, ministri ladri e anti-italiani) vogliono «ridurre gli uomini allo stato di servi cui non solo è negato vedere i loro padroni, ma anche conoscerne i nomi». L’investimento «a rendita ultra capitalizzabile con seconda rendita all’infinito» è immorale e fonte di miseria generale. Per questo Delfini, in un crescendo di provvedimenti iperbolici, propone: schedatura dei monopolisti; proscrizione degli affaristi; gestione operaia delle grandi industrie: il padrone potrà restare «con un suo impiego, e anche con una sua caratura che nell’insieme non dovranno mai fruttargli un reddito superiore a quanto renderebbe un patrimonio del valore di un milione di franchi oro 1914» (mezzo milione di dollari del 1951).
Quale cornice istituzionale riesce gradita al Partito conservatore e comunista? Lo Statuto albertino adattato «con i debiti accorgimenti al regime repubblicano». L’odierna Costituzione, lungi dall’essere la più bella del mondo, «non ha un articolo che non sia pura e semplice chiacchiera».
Secondo Delfini, è folle negare la verità: «L’Italia ha una nascosta memoria di ciò che essa era prima del 1859, prima cioè che una sorta d’arbitrio giacobino sostituisse agli storici Stati le burocratiche, numerose, ingombranti provincie». Delfini vuole concedere un’ampia autonomia agli Stati pre-unitari. Ogni Stato avrà un suo governatore assistito da una consulta formata da quattro senatori, dai deputati del territorio e da un’ampia rappresentanza della società civile. Delfini chiede anche che il Senato nazionale sia una camera rappresentativa degli Stati autonomi.
Il sistema giudiziario e quello bancario andranno rivisti in profondità. Nei tribunali, ad esempio, andranno abolite le incompetenti giurie popolari fatta eccezione per qualche caso particolare. Le banche invece dovranno tornare alla loro antica funzione (prestare soldi a tassi d’interesse onesti) ponendosi al servizio di salariati, piccoli proprietari e veri imprenditori bisognosi di essere finanziati.
Secondo il Manifesto, decoro e stile non sono secondari: «Tutta la storia italiana non è che lo sforzo di preservare un innato decoro e uno stile di vita associata articolato secondo misure che la stessa formazione geografica e storica della nostra penisola suggerisce, dalle sempre minacciose sovrastrutture barocche e dalle sempre ricorrenti cadute della dignità». Un’intera civiltà dunque è in pericolo.
In tutto questo c’è profonda contraddizione? Ma certo! Scrive Delfini in conclusione: «Non vorremmo sembrare immodesti e perciò non faremo esempi, ma i più efficaci fra i moti della storia umana sono nati da una aporìa della logica e da un’incongruenza del sentimento: più sterili rimasero e rimangono sistemi meglio congegnati e messaggi tutti didascalici e risolutivi».
Il Manifesto, in sostanza, passò inosservato anche se colpì molto almeno un lettore d’eccezione: Pier Paolo Pasolini. Ma questa è un’altra storia.