La Lettura, 2 gennaio 2023
Pinocchio al cinema
Libro di «formazione e trasformazione», secondo la bella definizione di Piero Dorfles, ritratto di una gioventù che deve «trovare la strada per la condizione adulta» superando il suo stato di immaturità per entrare nella società civile, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi (1826-1890) ha affascinato generazioni che vi hanno trovato non solo un testo per bambini ma «anche un libro di satira sociale, di antropologia culturale, di sperimentazione linguistica e, insieme, anche una sorta di indagine sulla dimensione infantile» (sempre Dorfles). Inevitabile che il volume uscito nel 1883, diventasse per registi e sceneggiatori il mezzo ideale per dare forma alle proprie idee o ossessioni. Come dimostra l’ultima delle sue vite cinematografiche, quella che gli fa vivere Guillermo del Toro, facendolo addirittura scontrare con Mussolini, momentaneo punto d’arrivo di una storia che sullo schermo era iniziata più di cent’anni fa.
La prima voltaÈ il 1911 quando esce Pinocchio di Gant, cioè Giulio Antamoro, prodotto dalla Cines: a interpretare il burattino è Polidor, conosciuto dal pubblico come Tontolini, che all’inizio entra sul proscenio in abiti comuni e si trasforma in Pinocchio durante una capriola. La scelta d’un clown come attore principale spiega l’abbandono della dimensione morale (non c’è il Grillo Parlante) e le tante libertà rispetto al libro (con Geppetto, il burattino finisce anche tra i nativi d’America dove viene eletto capotribù) ma soprattutto il predominio della dimensione burlesca che sulla scia delle invenzioni di Méliès sfrutta le potenzialità dei primi trucchi, trasformando Mangiafuoco in gigante e popolando il surreale paese di Acchiappacitrulli d’animali antropomorfi.
Le versioni animateTrucchi e invenzioni non potevano che stimolare la fantasia degli animatori e quindi non è un caso che la versione più celebre, anche se infedele, del romanzo di Collodi porti la firma di Walt Disney che affidò a Ben Sharpsteen e Hamilton Luske il compito di farlo arrivare sugli schermi nel 1940, probabilmente il miglior risultato di sempre della casa con la sua capacità di fondere elementi favolistici e dimensione fantastica. Talmente popolare, nonostante l’iniziale poco successo (dovette aspettare le riedizioni del Dopoguerra per recuperare i soldi spesi) da «imporre» certe invenzioni – come la sostituzione del Pesce-cane con una balena – nell’immaginario delle generazioni a venire. Inevitabile che chi abbia poi cercato di percorrere la stessa strada, come Bentornato Pinocchio di Orlando Corradi (2007) o Pinocchio di Enzo D’Alò (2013) abbia faticato a trovare una forma altrettanto convincente, il primo cercando di occhieggiare lo stile degli anime giapponesi (e inventando il personaggio di un barboncino con cui il burattino condividerà ogni avventura) mentre il secondo puntando molto sui bellissimi sfondi di Lorenzo Mattotti e le canzoni di Lucio Dalla epperò sprecando l’intuizione iniziale (Geppetto che non crea dal legno il figlio che non ha mai avuto ma il sé stesso innocente che non è mai stato) anche perché la fisionomia dei personaggi non lascia il segno, a cominciare da un Pinocchio che non fa mai tenerezza.
Riletture d’autoreIl romanzo di Collodi non poteva non affascinare i nostri registi più sensibili alla dimensione fantastica. Nel 2002, un Roberto Benigni baciato dal successo popolare veste i panni del burattino affidando alla compagna Nicoletta Braschi il ruolo della Fata Turchina. La sceneggiatura scritta con Vincenzo Cerami si concede qualche bella invenzione (il tronco animato all’inizio, l’ambra indisciplinata alla fine) ma la lettura non riesce a celebrare come vorrebbe l’anarchia del «principio di piacere». E nonostante i prestigiosi collaboratori (fotografia di Dante Spinotti, musiche di Nicola Piovani, scene e costumi di Danilo Donati) il risultato è freddo e anonimo. Diciassette anni dopo ci prova Matteo Garrone, con quella che forse è la più filologica delle letture di Pinocchio (con Benigni nel ruolo di Geppetto, «padre» di chi era stato figlio nel suo film). Evidente la fascinazione di Garrone per il mostruoso e il sottilmente perturbante (come l’idea di sdoppiare la Fata dai Capelli Turchini, prima adolescente poi donna) e la voglia di confrontarsi iconograficamente con le illustrazioni di fine Ottocento del romanzo (la fotografia è di Nicolaj Brüel) ma alla fine il risultato non convince appieno, quasi si fosse limitato ad accostare scene ed episodi senza una vera unità d’intenti. Così, la miglior rilettura italiana del libro resta quella in sei puntate firmata da Luigi Comencini per la Rai nel 1972 (e ridotta per il cinema a 134 minuti): è Le avventure di Pinocchio con Nino Manfredi nei panni di Geppetto, Gina Lollobrigida in quelli della Fata Turchina, Franchi e Ingrassia come Gatto e Volpe e un convincente Andrea Balestri in quelli del bambino smanioso di indipendenza che diventa burattino come punizione alle sue bugie. E se la sceneggiatura del regista e di Suso Cecchi d’Amico finisce per privilegiare la dimensione sociale su quella fantastica (non dimentichiamo cosa succedeva nel Paese reale in quegli anni) l’esito è un perfetto mix di poesia e di creatività.
Vie angloamericaneDiretto dall’irlandese Steve Barron Le straordinarie avventure di Pinocchio (1996) perde le tradizionali connotazioni pedagogico-punitive per diventare una sorta di «romanzo di formazione» dove il bambino-marionetta è alla ricerca dei valori che potranno renderlo definitivamente umano. Senza Fata Turchina (Geneviève Bujold è solo la donna amata in segreto da Geppetto/Martin Landau) e con un bell’intreccio di lingue (inglese, americano, tedesco, italiano) che nell’edizione di casa nostra sfortunatamente si perdono. Meno convincente, invece, la versione di Robert Zemeckis (Pinocchio, 2022), troppo debitore dell’immaginario disneyano e come schiacciato da una lettura pessimistica sul presente del cinema mainstream, come testimoniano le scelte di casting per ossequiare i temi dell’accettazione del diverso e dell’inclusività (con una sconcertante Fata Turchina di colore e quasi calva, Cynthia Erivo).
Plagi, furti e altro ancoraPoteva Pinocchio evitare che ci si impossessasse della sua fama per farne altro? Certamente no e infatti nel 1971 Corey Allen ha la sfrontatezza di firmare Le avventure erotiche di Pinocchio, dove la vergine Geppetta [sic!] intaglia un pupazzo di legno che la Fata Turchina (che a ogni magia finisce senza vestiti) trasforma in un ragazzo in carne e ossa, le cui immaginabili doti sessuali attireranno femmine in quantità. Daniel Robichaud invece nel 2004 firma il cartoon P3K. Pinocchio 3000, dove il personaggio inventato da Collodi è un automa digitale che prova sentimenti umani e che manifesta alla Fata Cyberina il suo desiderio di diventare un bambino. Last but not least OcchioPinocchio di e con Francesco Nuti (1994), favoletta squinternata su un animo semplice soprannominato Pinocchio che fugge da un ospizio toscano e dal padre ricchissimo per sbarcare negli Stati Uniti che girerà a fianco della giovane Lucy Light (Chiara Caselli), ragazza di poca virtù (e spesso nuda) inseguita dalla polizia.