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 2023  gennaio 02 Lunedì calendario

“UN’ANALISI SEMIOTICA DEL NOME DELLA ROSA? SAREBBE STATO COME ‘OPERARSI DI EMORROIDI DA SOLO’” – LO SCRITTORE ROBERTO COTRONEO RICORDA UMBERTO ECO: “TUTTI PENSANO FOSSE PROFESSORISSIMO E CURIALE. ERA L'OPPOSTO” – “IL CELLULARE NON GLIEL'HO MAI VISTO IN MANO, FINO A UN ANNO PRIMA DELLA MORTE, QUANDO UNA SERA A CASA DI SUO FIGLIO STEFANO, CON POCHISSIMI AMICI, HA TIRATO FUORI DALLA TASCA UNO SMARTPHONE E…” -

Ancora negli anni Ottanta gli ottici fabbricavano lenti per miopi troppo spesse, e le montature erano solide. Per cui, quando mi sono ritrovato davanti la prima volta Umberto Eco, notai che le pupille erano ingrandite dalle lenti degli occhiali. E siccome era un uomo curioso, ti sembrava di essere di fronte a un uomo che ti faceva i raggi X, e per quanto bisognoso di occhiali, riusciva a vedere tutto, anche quello che non era palese.

Si era ad Alessandria, alle fine di dicembre di un anno, il 1980, che al professor Umberto Eco avrebbe cambiato la vita. Il nome della rosa era uscito da due mesi. Ed era un buon successo. Ma nessuno avrebbe immaginato che l'aggettivo buono, adatto a qualcuno che aveva condotto la vita di un intellettuale bravo e serio, sarebbe diventato clamoroso e mondiale. Neppure lui.

Con Valentino Bompiani, suo editore e amico di una vita, si erano detti: «Pensi che ne venderemo ventimila? O forse no?». In Italia, e solo nei primi due anni erano già due milioni di copie. Per non dire nel resto del mondo. Le vendite de Il nome della rosa , nessuno riesce a contarle, un po' come le dimensioni dell'Universo. C'è chi dice 26 milioni di copie, chi va oltre. Poco importa. Quando superi certi numeri è tutto quello che c'è intorno che conta davvero.

E dire che quella stessa estate, mentre viaggiava in treno da Milano a Bologna, Eco aveva incontrato Giorgio Bocca, che andava a Roma. Nel tratto di viaggio assieme gli aveva detto: «Non lo so, secondo me io sono condannato a fare Umberto Eco per il resto della vita, non cambieranno le cose nei prossimi vent' anni».

Voleva dire lezioni, conferenze, saggi colti e ammirati, pochi salotti intellettuali, amici cari che andavano e venivano, e non molto di più. Eco ha cinquant' anni, Giorgio Bocca dodici in più: sono già 62. Bocca gli risponde qualcosa che non sappiamo, perché la sua risposta non me l'ha detta. Certo qualcosa di solido e al tempo stesso sghembo come era lui: ex partigiano di Cuneo.

Erano entrambi ironici, disincantati, abituati al grigio, alla nebbia, e a certe ruvidezze. Non è bastato il ruvido realismo piemontese. Eco avrebbe stupito il mondo. Vendendo un libro di 600 pagine, pieno di dispute medievali, poco o niente sesso, ragionamenti aristotelici, e un po' di monaci ammazzati, in milioni di copie anche in luoghi dove l'uomo medioevale era paragonato all'incirca, per distanza e percezione, all'australopiteco.

Una volta, a Montgomery, in Alabama (ma lui non era sicuro, forse era Austin, Texas, ma siamo sempre nel Sud degli Stati Uniti) presentando Il nome della rosa , disse che non avrebbe mai fatto un'analisi semiotica sul suo romanzo, perché sarebbe stato come «operarsi di emorroidi da solo». Due giorni prima, a Boston, l'espressione era stata: sarebbe come «psicoanalizzare i miei figli». Paese che vai, paragoni che trovi. E lui era così. Poi l'analisi la fece, con le Postille , ma tutti glielo chiedevano, e in queste cose non si sottraeva.

In altre sì. Fu una fortuna incontrarlo e intervistarlo nel 1980. L'inizio di un'amicizia potrei dire, con un certo pudore, peraltro. Già non dava quasi più interviste. Già le sue fedeli segretarie, la signora Cioncolini a Milano e la Simona a Bologna, filtravano tutte le telefonate. Non esistevano mail e cellulari, naturalmente.

Il cellulare non gliel'ho mai visto in mano, fino a un anno prima della morte, quando una sera a casa di suo figlio Stefano, con pochissimi amici, Riccardo Fedriga, Roberto Benigni, Danco Singer, molto rilassato, ha tirato fuori dalla tasca uno smartphone. L'ho guardato come avrei potuto guardare Napoleone Bonaparte che si mette alla guida di una Lancia Aurelia. Aveva un cellulare? E chi poteva immaginarlo.

E dire che tecnologico lo era da sempre, e prima di tutti. In genere nelle cose lui era prima di tutti. Prende un ebreo newyorkese con la passione per i film e il cinema che si fa chiamare Woody Allen, e pubblica i suoi libri per Bompiani.

Nessuno lo conosceva. La stessa cosa fa con un americano schivo e silenzioso, che disegna fumetti con bambini molto saggi e un cane che scrive romanzi, lo consiglia a Milano Libri, e scrive la prefazione, che inizia così: «Charles Schultz non beve, non fuma e non bestemmia». È la data di nascita dei Peanuts in Italia.

Inventa saggi dove le teorie dell'informazione vanno a braccetto con la filosofia. Sdogana per primo quello che riteneva andasse sdoganato. Ma il termine allora non si usava. Per avere un'idea, citandoli di seguito: Flash Gordon, Ian Fleming, Carolina Invernizio, Guido Da Verona, Eugene Sue e in generale il romanzo di appendice.

Tutti pensano fosse professorissimo e curiale. Era l'opposto. L'arte della barzelletta doveva avergliela insegnata suo zio Romeo. Lo zio più giovane che di professione era sarto. E che era spiritoso e divertente, e ne raccontava molte. Da lì poi i calembour, i giochi linguistici, la passione per l'enigmistica, e un suo modo di contenere mondi diversi. Appassionato di musica contemporanea e del flauto barocco, passava l'estate a Monte Cerignone, in quelle Marche in odor di Romagna, a esercitarsi.

Con Luciano Berio che lo guardava severo: «Umberto il flauto negli ultimi anni lo suona sempre peggio», mi ha detto una volta divertito. Ma le passioni musicali di Eco andavano da Boulez a Gorni Kramer. Meglio: a Gianni Coscia. Una vita assieme. Compagni di banco al Liceo Plana di Alessandria. Amici di sempre. Gianni, jazzista e grande fisarmonicista ha inciso un disco, se ancora si può dire in tempi di Spotify, con le musiche del romanzo La misteriosa fiamma della Principessa Loana .

Dove si passa da Ma l'amore no a Stormy Weather . Quel pomeriggio non sapevo ancora nulla di lui. E avrei continuato a sapere assai poco, se non fosse stato per i suoi romanzi, che riguardo al suo privato erano come dei chiavistelli. Confrontavi storie che raccontava nei libri, con quello che ti diceva a cena, o davanti a un caffè e una sigaretta, e trovavi il disegno segreto. Capivi qualcosa di lui, perché altrimenti il suo riserbo era quasi impenetrabile. Quando gli chiesero perché si era messo a scrivere romanzi a cinquant' anni, lui rispose: «perché avevo voglia di avvelenare un monaco».

Quando pubblica la sua tesi di laurea, discussa con Luigi Pareyson, il titolo è Il problema estetico in San Tommaso d'Aquino . Quindici anni dopo, nella riedizione per Bompiani, toglie il San. E diventa Il problema estetico in Tommaso d'Aquino . Ormai l'Azione Cattolica è diventato il passato. È ateo ed era cattolico.

Chiunque altro avrebbe dato interviste su quel cammino e quel percorso, fino a sfinirci. Lui toglie il San, e chi vuole capire capisca. In questa sciarada continua, le domande erano poche: «Umberto, il finale del Pendolo di Foucault , è una storia tua». Certo che è una storia sua. La sua passione per la tromba, il Genis per essere precisi. E quale dei tuoi libri ti porteresti nell'isola deserta? E lui che ti guarda nello stesso modo, anche se nei decenni le montature si sono fatte più sottili, e le lenti meno spesse.

Ma quegli occhi ti scrutano e per certi versi ti inchiodano ancora: «È il Pendolo Umberto, il tuo libro preferito tra quelli che hai scritto?». E lui: «Lo hai detto tu». L'ho detto io. Ed è stato il suo modo di rispondermi. Le ermeneutiche impazzite, le semiosi incontrollate, la teoria del complotto sono state le sue ossessioni. Oggi regolano sempre di più il mondo che abitiamo.

Ancora una volta lo sapeva prima degli altri. È sempre stato il suo modo di capire il gioco e anticiparlo. Non sarà un caso che i due alessandrini più famosi sono stati Umberto Eco e Gianni Rivera: genio del calcio, pallone d'oro, numero 10 prima di tutti i numeri 10 che sarebbero venuti dopo. Come Umberto, anche Rivera è nato in un luogo piatto, grigio e nebbioso. Ma forse proprio in posti così possono nascere e crescere geni eccentrici come loro.