Corriere della Sera, 2 gennaio 2023
Il pomodoro, ortaggio dei due Mondi
«Astro della terra, stella ripetuta e feconda, ci mostra le sue circonvoluzioni, i suoi canali, l’insigne pienezza e l’abbondanza senza osso, senza corazza, senza squame né spine, ci consegna il regalo del suo colore focoso e la totalità della sua freschezza…». Comincia con un’ode del poeta cileno Pablo Neruda, premio Nobel per la Letteratura nel 1971, il viaggio in 223 pagine che tocca etimologia, storia, geografia, arte e costume di un prodotto per noi identitario, non solo in cucina: il pomodoro. Anzi Il signor pomodoro. Storia di un successo biologico con qualche divagazione, titolo che Franco Avicolli ha scelto per il libro (Edizioni Archos, pagine 224, e 20).
Nelle sue divagazioni l’autore ci racconta come è arrivata sulle nostre tavole questa bacca proveniente dal Nuovo Mondo e come sia diventata un emblema della contaminazione positiva tra culture, annegando nella sua polpa pregiudizi, diffidenze e la violenza dei conquistadores. All’origine era il jitomatl, il primo vagito nelle regioni andine e mesoamericane e, una volta importato dai terrazzamenti aztechi, venne coltivato e relegato a pianta ornamentale, miope presa di distanza, venata di razzismo, nei confronti degli usi e costumi indigeni.
Ci ha pensato madre natura, con il clima mediterraneo ottimale per la coltivazione della pianta, soprattutto nelle regioni meridionali, a trasformare il bistrattato pomodoro in «oro rosso» (182 miliardi di tonnellate prodotte nel 2017). «Merito delle sue qualità organolettiche – scrive Avicolli – ma senza dimenticare le circostanze che ne hanno permesso l’adozione, l’uso, la valorizzazione e la domesticazione rivelatrice».
Un lungo viaggio dal jitomatl al pomodoro, passando per il nahua e il tomate, impreziosito da pagine di note, un racconto nel racconto. Si attraversa la storia e s’incontrano personaggi come Francisco Fernandez, medico toledano del re di Spagna Filippo II, che sottolinea l’efficacia di quelli rossi «contro il fuoco di Sant’Antonio, il mal di testa, il bruciore di stomaco e le infiammazioni della gola».
La legittimazione alimentare, come ospite gradito della tavola, è datata 1791, porta la firma di Juan de la Mata, autore di Arte de Reposteria, dove compare per la prima volta la salsa de tomate a la española, con pomodori alla brace e una spruzzata di aceto. A sua volta il pittore sivigliano Esteban Murillo, con la sua Cucina degli angeli, 1646, testimonia la diffusione del pomodoro anche nel campo dell’arte. E ancora, Giovanni Vialardi, cuoco di casa Savoia, che afferma «i pomi d’oro o d’amore, sono un alimento sano, piacevole, agro, astringente, rinfrescativo» e Francesco Cirio, che nel 1868 inizia a coltivare e imbottigliare pomodori nei dintorni di Napoli.
Già, Napoli. Matilde Serao ne dipinge così il colore e il calore: «Questo popolo ama i colori allegri e mette un pomodoro sopra un sacco di farina per ottenere un effetto pittorico mostrando che qui l’ortaggio è anche un simbolo di allegria. Tutte le strade dei quartieri popolari hanno osterie che installano all’aria aperta le loro caldaie, dove bollono sempre i maccheroni e il sugo di pomidoro…».
C’è un rammarico nella (l)ode al pomodoro di Neruda: «…Ha luce propria, maestà benigna. Dobbiamo purtroppo assassinarlo: s’immerge il coltello nella sua polpa vivente, è una viscera rossa, un sole fresco, profondo, senza fine…».