Robinson, 31 dicembre 2022
Intervista ad Alessandro Piperno
È raro incontrare uno scrittore che sappia rendere la propria vita un canovaccio pronto per trasformarsi in letteratura. Sia essa sotto forma di romanzo che nella veste saggistica. Prendete la recentissima raccolta di saggi dedicata a Proust di Alessandro Piperno. Tutto sembra ricondurlo a una specie di ossessione autobiografica. C’è Proust, ovviamente e c’è l’intenso a volte crudele sguardo introspettivo che spiega perché voglia raccontarci dello scrittore francese. Non è diverso Piperno romanziere. Dagli esordi sorprendenti Con le peggiori intenzioni fino al più recente Di chi è la colpa. Lo stile è sorvegliato, riflessivo, argomentato per le storie privatissime che sa mettere in campo. Come se il romanzo o il saggio non debbano mai uscire da quel cerchio magico e complicato che è stata la sua esistenza. Sarebbe facile constatare che nei libri di Piperno ci sono riverberi di psicoanalisi, come pure si intravedono le tormentate radici ebraiche. Aggiungo che vi è qualcosa di meno visibile o dichiarato a rendere il suo lavoro un’affascinante resa di conti con se stesso. Sospetto si tratti di un segreto desiderio di autodenigrazione alla continua ricerca di equilibrio tra la vita e la morte. Non è questo il modo che ha scelto per immergersi nella Recherche?Come Proust attinge all’infanzia e all’adolescenza. E lo fa nella convinzione che è molto raro che possa trovare qualcosa del presente che sia all’altezza dei suoi ricordi. Si muove tra l’elogio della memoria e la minaccia dell’oblio. In quel mondo della vecchiaia, ovattato e sordo, halanciato la difficile e rischiosa sfida al tempo che passa. Inizi il tuo libro su Proust parlando di vecchiaia. Cosa ti tormenta?«Niente di particolare. La vecchiaia sottostà alle grandi leggi della vita. E comporta lo strazio della decadenza. È un problema, se ci penso, non da poco. Quando il narratore, cioè Proust, si guarda allo specchio non capisce ancora di essere diventato vecchio. Non si riconosce. Se ne rende conto guardando gli altri. Questa è la vecchiaia. Una verità sgradevole che demolisce ogni illusione». Perché hai sentito il bisogno di aggiungere un nuovo libro su Proust?«In realtà ho scritto un libro sui proustiani. Potrei aggiungere che racconto di me, attraverso Proust. Attraverso un autore che reputo fuori dal tempo. Dopotutto, l’unica cosa che non invecchia è laRecherche!»Come proustiano cosa riveli di te?«Il proustiano si distingue per una singolare inclinazione allo snobismo e all’idolatria. Sentimenti che a volte si intrecciano. Di solito egli guarda dall’alto in basso chi magari gli è socialmente superiore, oppure idolatra oggetti e luoghi che Proust ha raccontato, infliggendosi faticosi pellegrinaggi, per poi scoprire un certo squallore che mai ammetterà. Il proustiano è facile alla lacrima. Come al gesto estetico. La malia di certe descrizioni lo spinge verso il fascino di Swann o, inavvertitamente, è risucchiato dalle velleitarie aspirazioni di Madame Verdurin». L’indimenticabile signora che vorrebbe ma non può.«Di Madame Verdurin è pieno il mondo. Guardo condistacco i suoi aspetti più ripugnanti e poi con sgomento mi accorgo di non esserne privo. Avverto il contagio in certi miei atteggiamenti melliflui, nei pensieri più gretti e più snob». Tu scrivi: «Mi sento Madame Verdurin ogni volta che ottengo onori immeritati a scapito di chi invece li avrebbe meritati. Ogni volta che mi fingo esperto di malattie infettive, di politica estera, di flussi elettorali o di sport acquatici. Ogni volta che faccio finta di commuovermi o di indignarmi per cause che mi interessano appena» e via così. Che cos’è che ti turba al punto da autodenigrarti?«È quella certa ambiguità morale che ci segna irrimediabilmente e ci fa partecipi dello sdegno verso il lato feroce e tragico della vita ma senza mai rinunciare alle nostre tiepide e confortevoli comodità. Intendiamoci, sarebbe troppo facile definire Madame Verdurin un mostro. Non lo è più di quanto non lo siamo tutti noi. E fa bene Proust a non giudicarla troppo severamente». A Proust hai dedicato parte della tua vita di studioso. Mi sorprese che uno dei tuoi primi lavori parlasse del suo antisemitismo, vero o presunto che fosse.«Oggi giudicherei con distacco quel libro, scritto con l’intenzione diépater le bourgeois. Oggi più sobriamente direi che una delle chiavi per leggere laRecherche è quella ebraica. Trovo bizzarro, per non dire inappropriato, che scrittori come Kafka o Svevo passino per esponenti della letteratura ebraica mentre si ignora Proust». Ma di quell’antisemitismo che rilevasti allora cosa è restato?«Quella prima lettura di Proust era fin troppo forzata. Ma non la cancellerei del tutto. Salverei la convinzione che Marcel abbia vissuto la propria appartenenza al mondo ebraico in modo controverso». Un po’ come l’hai vissuta tu fin dai tuoi esordi narrativi.«Ma sai,Con le peggiori intenzioni non fu accolto benissimo nell’ambiente familiare. Il refrain che continuamente mi veniva sbattuto in faccia era: “come hai potuto farci questo!”. Ero il reprobo che veniva giudicato e condannato. Ero l’ingrato, quello che faceva comunella con l’intellighenzia antisemita». Questa famiglia non aveva il diritto di reagire, visto che ne scoprivi pubblicamente tutte le debolezze?«Più che debolezze raccontavo in che modo quel mondo mi stava schiacciando. Ho sempre avuto a che fare con figure forti e tracotanti».A chi ti riferisci?«Ai miei nonni, a mio padre, perfino a mio fratello. Li ho sempre percepiti come personalità straripanti, piene di appetiti, di carisma sessuale. Tutte cose di cui ero sprovvisto. Al punto che come reazione è cresciuta in me una certa dose di risentimento». Ti è servita per dar vita ai personaggi dei tuoi romanzi?«Penso di sì. La figura per esempio del nonno paterno ha ispirato alcuni miei protagonisti: dalla figura di Daniel Sonnino diCon le peggiori intenzioni fino allo zio Gianni che racconto e descrivo nel mio ultimo romanzoDi chi è la colpa».Chi era questo tuo nonno?«Ebreo italiano, nato nel 1920, completamente traviato dalla retorica fascista. In seguito si sarebbe ricreduto ma negli anni del fascismo era stato, come tanti altri, balilla e avanguardista. Continuò anche dopo a mostrare un vero culto del proprio corpo, una specie di fanatismo fisico che lo induceva a girare tranquillamente nudo per casa. Per un ragazzo come me, introverso e pudico per giunta testimone di tanta esibita virilità, era un problema. Il nonno dava di sé un’idea marziale mista alla volgarità del bon vivant». Tutta questa esibizione è stata sufficiente a destabilizzarti?«Non l’ho vissuta benissimo. Ma c’era anche dell’altro. Oggi mi sento pacificato con la famiglia, ma fino a pochi anni fa percepivo ancora il fastidio per lo sfoggio di conoscenze, come se ogni riunione familiare si riducesse a una recita teatrale. Tutto era suscettibile di giudizio: un film, una canzone, un piatto di pasta o una stoffa per confezionare un vestito. Mi disturbava che questo presunto patrimonio di competenze esibite fosse vissuto in forma per lo più autoreferenziale». Quando dici di ritenerti pacificato, intendi dire che oggi guardi con occhi diversi a quel mondo?«Mi sembra di aver superato certi problemi».Sei mai stato in psicoanalisi?«Ho avuto una lunga esperienza di analisi con un freudiano di ferro che mi infliggeva quattro sedute alla settimana. Prima di sentirlo parlare attesi due anni. A un certo punto presi a trattarlo male, a insultarlo, a insolentirlo. Ma lui era l’esatto opposto della mia famiglia. Silenzioso fino allo sfinimento. Non riuscendo ad andarmene decisi di mentirgli. Un bel giorno durante una seduta gli comunicai che avevo vinto una borsa di studio in Francia. E che sarei partito per lungo tempo. Passai i tre mesi successivi nella paura che lo incontrassi e misbugiardasse».Con quali aspettative sei uscito da quell’analisi?«Con la convinzione che l’unica analisi possibile per me fosse la scrittura. Penso che Con le peggiori intenzioni sia il frutto di quel momento». Come valuti oggi quel romanzo che si è imposto come uno dei migliori esordi narrativi?«Allora faticavo tremendamente a scrivere. Era come se facessi finta di essere uno scrittore e soltanto oggi mi sembra di esserlo diventato davvero. Mi resi conto, un po’ tardivamente, che scrivere della mia vita mi trasmetteva la gioia che non avevo mai sentito prima. Di chi è la colpa è una prova di maturità. Con le peggiori intenzioni, un romanzo muscolare e pieno di risentimento». Sembra davvero che tu abbia fatto pace con i tuoi fantasmi.«Dì pure con la mia famiglia». Mi colpisce, per passare al libro epistolare tra tuo padre Stefano e tuo zio Claudio Bondì (“Perché ci siamo salvati”) che tu abbia apposto una postfazione e che l’abbia titolata “Con le migliori intenzioni”. Dove portano questi propositi?«Certamente a una maggiore chiarezza. Ti dirò un’altra cosa. Ho scoperto recentemente che anche grazie alla natura teatrale della mia famiglia, al fatto che ci fosserocontinue e compiaciute conversazioni a tavola, potevo sperare un giorno di diventare romanziere». Ma questa idea di una teatralità senza la quale non avresti fatto quello che poi hai realizzato in che misura convive o contrasta con quelle stesse famiglie ebree che a un certo punto cominciarono a fare i conti con le tragedie del proprio passato?«La mia famiglia ha sempre vissuto come fondamentale il poter accedere a un’esistenza comoda e felice anche quando, durante le persecuzioni, vennero meno in modo drammatico le condizioni. Poi, nel dopoguerra, si ristabilì quel vento favorevole alla gioia di vivere, tutto sembrò tornare al migliore dei mondi possibili. Nonostante le mie turbolenze e nevrosi, credo di aver avuto un’adolescenza che ha goduto di questo privilegio. Ma avevo 17 anni quando per il compleanno regalai a mio fratello un libro sui medici nazisti e i loro abominevoli esperimenti. Quel gesto inaugurò un lungo periodo di ossessione per cui leggevo qualunque cosa fosse stata pubblicata sul genocidio ebraico».Perché?«Per pura bulimia bibliografica generata dalla constatazione che qualcosa di inaudito era accaduto, talmente enorme che le vittime che vi furono coinvolte non se ne resero conto se non quando tutto questo litrascinò all’inferno. C’è una frase nella Recherche di una bellezza struggente che si attaglia al trauma giovanile di miei nonni e delle tante persone che ebbero in sorte quella vita: “Il mondo non è stato creato una volta per tutte per ciascuno di noi”. Pensarlo come fosse stato fatto a misura di ciascuno di noi ha impedito che molte cose fossero capite in tempo. Per anni ho cercato di immaginarle e l’immaginazione è la dote principe di un romanziere». Una dote da curare con disciplina o con qualche forma di religione?«Una religione laica o una disciplina che sappia introdurre al mistero della parola. Però la disciplina mi corrisponde di più».«Dormo pochissimo, mi alzo tutte le mattine alle cinque e un quarto, mi lavo, mi vesto. Prendo la metropolitana e vado nel mio studio per scrivere solo di narrativa. Passo così le mie mattinate. Sto lavorando al nuovo romanzo che è il sequel del Di chi è la colpa. Ci sono alti e bassi. Certi giorni sento crescere la voglia di fare, in altri si affaccia un po’di depressione creativa. Ma anche nelle condizioni sfavorevoli questa specie di disciplina dell’anima mi aiuta. So che è importante. Perché solo così il nuovo giorno ha senso per me come il precedente».