12 dicembre 2022
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Biografia di Steve Buscemi (Steven Vincent Buscemi)
Steve Buscemi (Steven Vincent Buscemi), nato a New York (New York, Stati Uniti) il 13 dicembre 1957 (65 anni). Attore. Regista. «Una volta dicevamo ironicamente che era il Don Knotts della nostra generazione, ma in un certo senso è più Jimmy Stewart: ritrae l’umanità» (Jim Jarmusch). «La mia carriera è stata una sorta di progressione costante nel corso degli anni. Non sono un successo dall’oggi al domani» (a Sheila Johnston) • Ascendenze italiane per parte paterna, irlandesi, inglesi e olandesi per parte materna. «Gli americani dicono “Busèmi”, senza la c: “Ho scoperto come si pronuncia correttamente il mio nome quando ho visitato la Sicilia, da dove venivano i miei nonni”» (Matteo Persivale). Figlio di un netturbino e di un’addetta all’accoglienza in un albergo, è nato a Brooklyn, dove è vissuto fino agli otto anni, per poi trasferirsi coi genitori e i tre fratelli a Long Island. «Sono figlio della classe operaia, e non posso che descrivere i miei genitori come “brava gente”. Sono stati brava gente per tutta la vita, senza che mai, a nessuno dei due, venisse la tentazione di fare qualcosa di male». «C’erano quattro ragazzi e i miei genitori in un appartamento con una camera da letto. I miei genitori dormivano in un divano-letto in soggiorno e io e i miei fratelli condividevamo la camera da letto. […] Giocavo a football americano, baseball e wrestling quando ero al liceo. Il mio preferito era il wrestling. […] Essere un attore non era qualcosa che mi sembrava realistico. È stato solo facendo recite scolastiche quando ero all’ultimo anno delle superiori che ho capito che era qualcosa che amavo» (a Rob Sharp). «Uno dei migliori amici di mio padre era un attore: Peter Miller, cresciuto a East New York con mio padre. […] Quindi avevo qualcuno in famiglia – non era un parente di sangue, ma lo chiamavamo zio Pete – che ce l’aveva fatta. Mio nonno, che non ho mai conosciuto, faceva il cameriere cantante a Coney Island con Jimmy Durante. Lo zio Pete era una sorta di modello da seguire, motivo per cui sono andato alla scuola di Lee Strasberg» (a Harlan Jacobson). «Buscemi pagò le lezioni con i seimila dollari che aveva ricevuto dalla città dopo essere stato investito da un autobus quando aveva quattro anni, durante la sua prima infanzia nel quartiere East New York di Brooklyn» (Gabriella Paiella). «Il mio interesse principale era la commedia. Provai a fare stand up per un paio d’anni, ma non mi piaceva la solitudine. A quel tempo vivevo nell’East Village e incontravo Rockets Redglare e Mark Boone Junior, e iniziammo tutti a lavorare insieme, scrivendo e interpretando il nostro materiale». «Insieme al mio partner di allora, Mark Boone, scrivevamo e interpretavamo piccole pièce, ovunque fosse possibile: nei seminterrati delle chiese, negli auditorium delle scuole, nei locali. A New York c’era una scena molto fertile fatta di teatro, pittura, musica e cinema, specie nel Lower East Side, dove vivevo. Gente come Jim Jarmusch e Tom DiCillo veniva fuori in quel periodo: in pratica è così che fui scritturato nei loro film, perché mi avevano già visto in giro». «Una delle mie recensioni preferite per un lavoro teatrale mi descrisse come “un Don Knotts profondamente disturbato”». Nel frattempo, dal 1980 al 1984, «Buscemi lavorava come vigile del fuoco. Per volere di suo padre, un operatore della nettezza urbana, lui e i suoi tre fratelli avevano sostenuto l’esame per il servizio pubblico, un percorso infallibile per un lavoro stabile e dignitoso. […] Buscemi avrebbe trascorso quattro anni alla Engine Co. 55 a Little Italy. All’inizio tacque sulle sue aspirazioni teatrali con i suoi colleghi. “Già pensavano che fossi un tipo strano, perché vivevo nell’East Village”, dice. “Così tenevo la bocca chiusa e la testa bassa e cercavo solo di andare d’accordo”. Poi, una notte, si ubriacò a una festa – “I vigili del fuoco cercano sempre una scusa per fare una festa” – e iniziò a intrattenere i presenti, imitando tutti i ragazzi. Fu un successo. “Iniziarono a venire a vedere le commedie che stavo facendo”, dice. “Furono davvero di supporto”. […] Dopo essere stato ingaggiato per la parte di un uomo gay che muore di Aids nel film del 1986 Parting Glances, Buscemi prese un congedo temporaneo dal dipartimento dei vigili del fuoco, che avrebbe finito per essere permanente. “Credevo davvero che [Parting Glances] mi avrebbe procurato più lavoro”, dice. “Mi procurò un agente. Non mi diede più lavoro subito, ma diede inizio alle danze”. (Il film sembra datato ora, ma un Buscemi giovane e beffardo mette in ombra tutti gli altri)» (Paiella). «Il suo ingresso nel cinema – nel 1985 con The Way It Is di Eric Mitchell, per la casa di produzione underground No Wave, cui hanno fatto seguito Parting Glances, nel 1986, Slaves of New York, nel 1989, e Tales from the Darkside, nel 1990 – è un processo graduale, quasi in sordina. […] Nei primi anni Novanta, Buscemi ha trovato chi avrebbe trasformato il suo sguardo smarrito e pietrificato in una tristezza atavica – tale che, anche quando ride, pare che gli si apra una crepa in faccia – in un marchio riconoscibile. Crocevia della morte, del 1990, attribuito a Joel Coen ma in realtà diretto con Ethan, segna l’ingresso nel cerchio più alto del cinema indipendente. […] Quello con i fratelli Coen è probabilmente il sodalizio più importante ed evidente della carriera di Buscemi: nel 1991 è venuto Barton Fink, nel 1994 Mister Hula Hoop e nel 1996 la meravigliosa interpretazione in Fargo. Seguono Il grande Lebowski, del 1998, e Paris, je t’aime, del 2006» (Giulio D’Antona). «Non bello, secondo i canoni convenzionali, ma forte di una maschera nevrotica di grande espressività e trasformabilità a seconda dei ruoli, dà il meglio come Mr Pink nel cult Le iene (1992) di Q. Tarantino, che lo arruola anche nel cast di Pulp Fiction (1994)» (Gianni Canova). «Hollywood non ha mai saputo cosa fare di Buscemi, che, con i suoi denti inquietanti, gli occhi da insetto, i capelli flosci e le labbra carnose e sensuali, non è mai stato in corsa per gli eroi. Appare in film commerciali come The Island, Armageddon, Sol levante e Con Air, il più delle volte in quelli che chiama “ruoli del genere ‘cattivo ragazzo’”, tipi palesemente strani con una vita breve. Ma è nel settore indipendente che brilla» (Johnston). «È stato un criminale avaro e sarcastico (Le iene), un criminale chiacchierone e losco (Fargo), un rocker heavy metal diventato un criminale sfortunato (Airheads) e un ragazzo il cui unico crimine è avere troppe opinioni sul jazz (Ghost World). Uno sceneggiatore nevrotico (In the Soup – Un mare di guai) e un regista nevrotico (Si gira a Manhattan). Un detective privato magnificamente inetto (30 Rock). Un giocatore di bocce oppresso (Il grande Lebowski). Un ragazzo letteralmente chiamato Occhi Storti (Mr Deeds)» (Paiella). «Nel 1996 si autodirige in Mosche da bar, film minimalista su un gruppo di falliti legati dal rito delle bevute e delle chiacchierate collettive. Tra le sue interpretazioni più recenti, Big Fish (2003) di T. Burton e Coffee and Cigarettes (2003) di J. Jarmusch. Dopo Animal Factory (2000), […] dirige nel 2007 Interview (ispirato all’omonimo film del regista olandese T. van Gogh), nel quale recita al fianco di S. Miller, in un geniale gioco verbale tra uno sprezzante giornalista e una disinvolta attrice di B-movies» (Canova). Intorno al 2010, «pensava di aver finito di recitare. Pensava di aver raggiunto l’apice, quindi tanto valeva dedicarsi alla regia a tempo pieno. “Non riuscivo proprio a capire quale fosse la direzione”, dice. “Mi sentivo come se fossi in una strana età in cui ero troppo vecchio per interpretare alcuni personaggi, ma non abbastanza vecchio per interpretare altri personaggi”. Poi, in un brillante rivolgimento di ruoli, il principe dei caratteristi ottenne il ruolo principale nei panni del capo politico e gangster Nucky Thompson nel dramma sul proibizionismo della Hbo Boardwalk Empire» (Paiella). La sua interpretazione, apprezzatissima tanto dal pubblico quanto dalla critica, gli valse nel 2011 il Golden Globe come miglior attore in una serie drammatica. «Dalla fine di Boardwalk Empire, nel 2014, Buscemi si è concesso il lusso di lavorare solo quando vuole. Il Buscemi più maturo è stato principalmente attratto dalla leggerezza e, più recentemente, da un elemento di cameratismo. Negli anni ’80 lavorò come vigile del fuoco: un’esperienza del mondo reale da cui attinge per Il re di Staten Island. […] Il regista Judd Apatow gli diede la possibilità di scegliere se il suo personaggio dovesse essere il capo dei vigili del fuoco o semplicemente un membro anziano della compagnia. “All’inizio ero un po’ eccitato all’idea di interpretare un capo dei pompieri”, mi dice Buscemi. “Ma poi ho pensato: no, voglio essere uno dei ragazzi. Solo uno dei ragazzi”. Nella prima stagione di Miracle Workers interpretava Dio, ma ha preferito di gran lunga il suo personaggio della seconda stagione, un contadino medievale di nome Edward Shitshoveler. “Dio era divertente, ma era un po’ isolato da tutti”, dice. “Ed era un po’ deprimente”» (Paiella). Da ultimo, nel 2022, Buscemi ha diretto The Listener, presentata come pellicola di chiusura alle «Giornate degli autori» della LXXIX Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. «“C’è una sola attrice in scena dall’inizio alla fine del film, al telefono con degli interlocutori che non vediamo, ascoltatrice di una linea di ‘telefono amico’ per persone che soffrono del male della nostra epoca: la solitudine. L’isolamento. […] È un film sulla solitudine, ma è anche un film sul lockdown. Quando ci siamo isolati tutti, per il Covid, in attesa dei vaccini, ho pensato che doveva esserci un piccolo film, da fare con un piccolissimo cast. Mi hanno mandato, neanche a farlo apposta, la sceneggiatura scritta da Alessandro (ndr: Alessandro Camon, figlio dello scrittore Ferdinando), […] e mi è sembrata perfetta”. […] Un film notturno […] nel quale gli interlocutori del telefono amico, diversissimi l’uno dall’altro, mettono a nudo sempre più il personaggio della protagonista. Quanto riveliamo di noi stessi ascoltando? È una domanda importante, di quelle che piacciono al Buscemi regista e al Buscemi attore» (Persivale) • Nel 2014 ha realizzato per la Hbo il documentario A Good Job: Stories of the FDNY, in cui ripercorre la sua esperienza da vigile del fuoco di New York. «Il documentario racconta la mia storia, ma anche il trauma subìto da tanti vigili del fuoco dopo gli attacchi dell’11 settembre del 2001. C’ero anch’io, ad aiutare là sotto: ci ho lavorato una settimana» (a Marco De Martino) • Vedovo della regista, coreografa e artista Jo Andres (1954-2019), un figlio. «Ad Andres fu diagnosticato un cancro alle ovaie nel 2015. Affrontò la chemioterapia, e fu in remissione per un periodo. Il cancro tornò a vendicarsi nel 2017. Quando Buscemi racconta gli ultimi anni di malattia della moglie, la sua voce s’incrina. “Il dolore è stata la cosa più difficile”, dice dolcemente. “Per le persone che stanno attraversando questo, è doloroso. È doloroso morire di cancro. Non c’è proprio modo di aggirarlo”. […] Prima che morisse Andres, dice Buscemi, non aveva pensato molto alla morte. “Se dovessi andarmene non all’improvviso, spero di poter essere presente come lo era Jo”, dice ora. “Lei ha aperto la strada. Era circondata da amici e familiari. L’ha davvero affrontato”» (Paiella) • Ha dichiarato che un libro che lo ha profondamente cambiato è Sulla strada di Jack Kerouac, «che lessi quando avevo circa 19 anni. Mi ha aperto questo mondo completamente nuovo» • Un suo passatempo recente è la pittura ad acquerello. «All’inizio pensavo che avrei espresso qualcosa di oscuro che è dentro di me. Forse è così, ma è stato sorprendentemente divertente» • «Al contrario dei suoi personaggi intensi e nevrotici, è un uomo mite e di grande gentilezza» (Persivale). «Alcuni attori danno spettacolo della loro presunta umiltà. Per Buscemi, quella qualità sembra pervadere tutto il suo essere. Nonostante il suo coinvolgimento in diverse pietre miliari culturali del nostro tempo – dai classici dei fratelli Coen ai blockbuster di Adam Sandler, da 30 Rock a I Soprano [cui collaborò sia come interprete di un personaggio minore sia come regista di alcuni episodi – ndr] –, non riesce ad abbandonare la modestia. […] Parla con i colleghi e gli amici di Buscemi, e sentirai ripetere più e più volte una parola: “gentile”. “Tutti lo adorano”, afferma David Chase, creatore di I Soprano. […] Jarmusch, tra l’altro, dice che Buscemi è un ballerino “incredibile”. “Sì, devi farlo sciogliere, e poi: ‘Ehi, Steve, vediamo come ti esibisci sulla pista da ballo’. È davvero bravo”» (Paiella) • La sua stessa partecipazione, nel 2022, alla Mostra di Venezia non è che «la conferma dell’enorme prestigio del quale gode tra critici e pubblico del cinema di qualità, e del rapporto strano con Hollywood, visto che uno dei più grandi attori americani della sua generazione, acclamato in tutti i festival, beniamino dei Cahiers du Cinéma, non ha mai ricevuto una nomination all’Oscar. Niente per Fargo, Il grande Lebowski, Le iene, Mystery Train, e tutti gli altri film» (Persivale). «Un animale raro. Un attore completo, ancora meglio: versatile. […] Il personaggio Buscemi sembra esistere in funzione della propria nevrosi, è sempre pronto a una crisi di nervi imminente, ma che […] non arriverà mai. Non è il tipo di nevrotico alla Woody Allen, che fa vanto delle sue peculiarità e le usa per lanciarsi in avventure strampalate, ma dà l’idea di provare continuamente e disperatamente a reprimerle, rendendole più evidenti» (D’Antona). «Buscemi ha passato una vita a interpretare lunatici e strambi, emarginati e stravaganti, col suo fisico segaligno vibrante come una corda di chitarra per la rabbia o teso per il profondo disagio di essere semplicemente al mondo. I gioielli della corona del suo volto sono i suoi occhi azzurri dalle palpebre pesanti, uno dei tratti più riconoscibili nel settore, che possono sporgere in modo maniacale o annegare in un dolore sommesso» (Paiella). «La carriera di Steve Buscemi è uno spin-off americano del cambiamento epocale nella recitazione introdotto da Alec Guinness. […] I suoi personaggi compiono l’alchimia di trasformare la tragedia in commedia nera» (Jacobson) • «Com’è stato quando hai avuto un ruolo romantico in Ghost World? “Non so se quello sia il protagonista romantico tradizionale, ma è divertente riuscire a farlo a volte… Mi piacciono i film in cui riesco semplicemente a sedermi a parlare con la ragazza [pausa, ride] anziché necessariamente tramare per ucciderli”» (Jacobson) • «Non puoi rimanere innocente per sempre. Sono un attore e voglio guadagnarmi da vivere. Ma non sento di essere stato corrotto: non ho mai interpretato un ruolo che odiavo o che pensavo fosse vera spazzatura, per i soldi» • «Per me la formazione classica teatrale è un fattore decisivo quando si parla di recitazione. […] Ho avuto la fortuna di frequentare la scuola di cinema migliore del mondo: ho potuto guardare, sul set, molti dei più grandi registi della mia generazione: Quentin (Tarantino) e i Coen, Jim (Jarmusch) e Tom (DiCillo), e Alexandre Rockwell, che nel dirigere gli attori è bravissimo. Io sul set cerco sempre di creare, come regista, l’atmosfera che vorrei trovare come attore: tranquillità, rispetto, ascolto». «Il mio modo di approcciare la regia passa attraverso la recitazione. […] Io capisco e sento quello che provano gli attori quando recitano: l’attore vuole avere la sensazione di stare dando un contributo al film, e di non essere qualcuno a cui viene detto semplicemente cosa fare» • «Mi piace lavorare, mi piace la mia famiglia, mi piacciono i miei amici. Non in quest’ordine, però».