16 dicembre 2022
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Biografia di Moreno Argentin
Moreno Argentin, nato a San Donà di Piave (Venezia) il 17 dicembre 1960 (62 anni). Ex ciclista, su strada e su pista. Vincitore, tra l’altro, di un campionato del mondo (1986) e di due campionati italiani (1983, 1989) di ciclismo su strada e di quattro Liegi-Bastogne-Liegi (1985-1987, 1991), tre Freccia Vallone (1990, 1991, 1994), un Giro delle Fiandre (1990) e un Giro di Lombardia (1987). «Non è che avessi un gran fisico quando correvo, però l’astuzia e la tattica di corsa, quelle, sì. Nel ciclismo, e anche nella vita, la sola forza non basta» (a Luca Gialanella) • Infanzia trascorsa a Passarella, frazione di San Donà di Piave. «Il padre Pietro ha avuto la responsabilità e l’onore di aver messo Argentin in bilico su una bicicletta, di averlo fatto gareggiare all’età di otto anni. “Se non fossi nato maschio, dopo tre femmine, mio padre e mia madre avrebbero insistito nel procreare figli. Sono arrivato io e hanno smesso”. Il padre, pensionato (perché reduce da un campo di concentramento tedesco, di cui conserva le tracce), era tifoso di Coppi. Gli garbava un figlio da scodellare in sella» (Mario Fossati). «“La mia prima volta al Giro d’Italia ero bambino, stavo dietro una curva del Piave accanto a mio padre. Erano gli anni di Merckx e Gimondi. I ciclisti passavano diretti a Bibione per la volata e ho visto uno svedese che mi sembrava gigantesco, anzi erano due, no tre, no quattro, e tutti biondi. Erano i quattro fratelli Pettersson: Gösta, Erik, Sture e Tomas. Mi colpì Gösta, che era alto quasi due metri e quell’anno vinse il Giro. Decisi che un giorno lo avrei corso anch’io, il Giro”. […] La prima bicicletta? “Me l’ha regalata mio padre. Ero un bambino ribelle, ultimo dopo tre sorelle. Anche mia sorella Tosca è diventata ciclista professionista e ha corso i mondiali con la maglia azzurra. Papà Pietro stravedeva per Fausto Coppi: avrebbe voluto correre, ma la guerra gli ha portato via gli anni migliori, una mano e anche la bicicletta, che prima di partire per il fronte aveva nascosto, convinto che nessuno l’avrebbe trovata. Quando è tornato, dopo una lunga prigionia, ha scoperto che il fratello si era venduto la bici. Faceva il guardiano ai cantieri navali Breda di Porto Marghera. Mi ha comprato la prima maglia, che era di lana grezza e pungeva. L’ho conservata: è accanto a quella iridata. Erano ciclisti poveri. I Cetra cantavano: ‘Ho messo la maglietta tua di lana. Ciao, mama’. Le magliette di lana non si mettono più nel ciclismo moderno, ma continuano a riscaldare i ricordi”. Chi è stato il primo allenatore? “Faceva tutto mio padre, ma è stato fondamentale nascere e crescere nel Veneto povero ma dignitoso dei primi anni Sessanta. Non avevamo il televisore, dovevamo andare a vedere la tv al bar o nella parrocchia. Mia madre faceva rispettare il coprifuoco della vigilia, veniva a cercarmi nella piazza dietro la chiesa di Passarella dove giocavo a pallone. È stata la mia prima dietologa: per me c’erano sempre il riso e la bistecchina, che allora era un lusso. Quando ho incominciato a correre da professionista mi servirono puntualmente riso e bistecca: mia madre li aveva anticipati. Applicava alla lettera anche le leggende, come quella della bistecca sotto il culo quando ti faceva male per le troppe ore in sella”. E la prima squadra? “È stata l’Uci Basso Piave, poi la Crich Libertas, una fabbrica di biscotti trevigiana che aveva l’appalto per le caserme. ‘Libertas’ come la Dc, perché allora i partiti appoggiavano lo sport dilettantistico. Da junior ho corso per una società di Portogruaro sponsorizzata da un appassionato commerciante di scarpe che aveva come sigla Spaip: ‘Sempre per accontentare il pubblico’. Le prime gare erano una festa che coinvolgeva tutta la famiglia, specie le domeniche di primavera: la sera ci permettevamo anche la pizza, un vero lusso”» (Edoardo Pittalis). «Moreno, però, bruciava nell’amarezza delle sconfitte giovanili. Per conservare Moreno al ciclismo, quel padre intelligente e sensibile, ridotto al ruolo di guardiano, ripensava per notti la guerra, la prigionia in Germania e gli anni della rinascita, che non gli avevano concesso molto sole. “Non vincevo una corsa che fosse una. Tutto mi andava a rovescio”, diceva Argentin. “Mio padre, però, mi rincuorava. ‘Sono gli alti e bassi del mestiere: dacci dentro, Moreno’”. A Moreno sarebbero piaciuti gli sport che il ciclismo, magnificamente plebeo, definisce “stirati”: il calcio, con il numero 9 di centravanti, il tennis, che gli pareva possibile, e il basket (da ala), che gli ricordava, ad ogni piè sospinto, la piccola statura (metri 1,71). Amava lo sci. Moreno adesso vinceva: una, due, tre corse, ma sempre di contraggenio. Non gli sembrava bello continuare nel ciclismo, con i suoi vuoti neri. Aveva concluso le medie. A San Donà di Piave, un ragazzo che non lavora, mi racconterà nel corso del Giro dell’81, […] ristà al caffeuccio con gli amici oppure guarda il vento, se il vento c’è. Moreno aveva deciso di frequentare la scuola di odontotecnico, a Venezia. Al secondo anno aveva abbandonato. Uno dei pochi ritiri importanti della sua vita. Aveva diciassette anni. Non ebbe pentimenti. Tornò deciso alla bicicletta. E, ora che vinceva, il paesino, dietro, a tifare. Padre, sorelle, vicini esultavano. Era passato con il gruppo sportivo Baggio di Milano, diretto da Alcide Cerato, che del ciclismo dilettantistico non c’è chi non conosca. Come corridore, Cerato era un balzano da quattro. A Milano, Cerato esercita la professione rimuneratissima di agente per viaggi definitivi (pompe funebri). Gli irregolari del re – i pistaioli – gli piacciono. Argentin, niente affatto svaporato e distratto, apparteneva al genere brillante. In pista, quel ragazzino che volava rubava l’occhio. C’era da giurarlo: lo avrebbe calamitato la strada» (Fossati). «Il commendatore Alcide Cerato di Legnaro nella Bassa Padovana per me è stato un secondo padre: aveva corso da professionista con la Molteni e dopo un incidente si era inventato impresario di pompe funebri, uno dei maggiori del Veneto. Però sulla maglia avevamo il nome ‘San Siro’. Dormivano in un capannone, a contatto con le casse da morto. Ci trattava da signori, con la cameriera che serviva a tavola». «La pista è un’avventura o spesso un episodio poetico, e la poesia non è commestibile. La strada, dunque, senza via di scampo. E da professionista. Finali a stilettate: classe che è oro a 18 carati. […] Moreno voleva ripagare i suoi di qualche soddisfazione finanziaria. E aveva fretta. La spina del debito con suo padre e sua madre è stata ampiamente rimossa» (Fossati). «Il primo Giro d’Italia da corridore e la maglia rosa? “Avevo vent’anni, aspettavo le tappe venete, ero emozionato all’idea di poter salutare i parenti ai bordi della strada. Andavamo da Bibione a Ferrara, sentii gridare ‘Dai, Moreno’: era mio padre Pietro. Ho vinto due sprint, a Cosenza e a Livorno: non male per un esordiente. La maglia rosa, l’ho indossata anche per settimane di fila, pure a distanza di dieci anni. Nel 1993 la tenni per metà Giro, poi la persi nella cronometro di Senigallia a favore di Indurain. Il cronometro era la mia pecca”. […] Quei tre anni da più forte del mondo e la maglia iridata? “Nel 1984, al mio terzo Giro d’Italia [in cui si attestò terzo – ndr], ho capito quali erano le mie possibilità: ero un corridore vincente nelle corse di un giorno. Ecco spiegati i successi nelle corse del Nord: quattro Liegi-Bastogne-Liegi, tre di fila, e tre Freccia Vallone. Il ct Alfredo Martini mi ha responsabilizzato subito, e il mondiale ti crea una tensione unica. Nel 1985 sul Montello le responsabilità erano grandi, ero nella fuga giusta, ci siamo controllati a vicenda con LeMond e abbiamo lasciato scappare l’olandese Zoetemelk, che poi ha vinto. Sono arrivato terzo. Il capolavoro mi è riuscito a Colorado Springs, lontano da casa, dai riflettori: sono andato via con altri a 70 chilometri dal traguardo e non c’è stata storia col francese Mottet. L’anno dopo sono arrivato secondo: ho sbagliato a lasciar andare via Roche, che aveva vinto Giro e Tour. Ci ha separati un secondo, un maledetto secondo, ma è stata una vittoria meritata”» (Pittalis). «Moreno aveva conosciuto Antonietta, la compagna della sua vita. Aveva convinto suo padre e sua madre della bontà di questa unione. Aveva abbracciato Antonietta, a Colorado Springs, un metro dopo il traguardo del mondiale. […] Al rientro in continente, Argentin aveva disposto per una casa a Montecarlo, come molti tennisti e piloti di Formula 1. “Vive a Montecarlo, in un afficheturistico”, osservava un austero dirigente, che disapprovava. Incoraggiato dal tecnico Laverda, Moreno studiava moderne metodologie di preparazione e di allenamento: e incrociava i ferri con patron micragnosi e musoni» (Fossati). «L’arc-en-ciel di Colorado ’86 è stato l’apice, il capolavoro di una vita, ma le istantanee più rappresentative della sua carriera, nel bene e nel male, sono forse più la Liegi dell’87 scippata al duo in fuga Roche-Criquielion e la Sanremo ’92 per converso “regalata” a quel Sean Kelly col quale, per marcarsi a vicenda, finì infinocchiato da quel furbone di Roche» (Christian Giordano). Ancora in Belgio, l’11 aprile 1990 «Moreno Argentin ha vinto il giro ciclistico delle Fiandre, ventitré anni dopo Dino Zandegù e a un intervallo di quarant’anni circa dal leggendario tiercé di Fiorenzo Magni (’49, ’50, ’51: tre primi posti consecutivi)» (Fossati). «Eppure Argentin, dall’alto del suo metro e 71 centimetri, non sembrava, anzi, non era nato per scalare i berg, gli strappi in pavé che disseminano la Ronde van Vlaanderen, […] una corsa selvaggia, remota, pittoresca, fredda e mitica, […] adatta ai maestri del Nord, appunto, quelli che dominavano, i Vlaamsen (i fiamminghi, i padroni di casa): […] troppo piccolo, e troppo grandi gli altri. “Forse sì, e forse è per quello noi italiani l’avevamo vinta così poche volte. Ma il Fiandre non è la Roubaix. Il Fiandre è fatto di strappi, e uno scattista, se assistito da una gamba stratosferica e da una giornata di sole, là in mezzo ci può stare. […] Ci andai senza troppo crederci: ero in un momento difficile della mia carriera”. Aveva vinto un mondiale molto giovane, in Colorado nel 1986, e già tre Liegi, un Lombardia. “Ma poi avevo chiuso il mio rapporto con la Gewiss-Bianchi ed ero passato all’Ariostea con Giancarlo Ferretti. E forse questo è uno dei segreti di quel giorno”. In verità, Moreno non indossava la maglia giallorossa della squadra ferrarese, né il cappellino. […] Aveva la maglia tricolore di campione d’Italia e un caschetto, dotazione rara questa, per quell’epoca ancora molto spericolata. “Quando buttai un occhio al cielo, al mattino, vidi che era bello, una giornata bellissima”, racconta oggi, “una giornata, pensai, di quelle che magari qualcosa, alla fine, chissà”. […] Argentin […] vinceva il Fiandre, battendo Dhaenens in una volata a due, “di quelle belle, ma facile solo vista su YouTube, in mezzo a tutta quella gente, e poi tutti per lui. Una soddisfazione che non si può raccontare, come tutto quello che successe dopo, il gran casino, il podio”. […] Nemmeno due settimane più tardi Argentin avrebbe vinto la prima Freccia Vallone, la prima delle sue tre. Aveva riunito assieme due classiche dalle opposte caratteristiche e di due mondi diversi, quello ruvido e contadino dei Vlaamsen e quello più snob, francofono e impiegatizio della regione di Liegi, la Wallonie, dov’è Huy e dov’è il suo celebre, spietatissimo Muro. “La seconda vittoria alla Freccia, quella del ’91, per come arrivò, con quel dominio di squadra assoluto, è stata forse la mia giornata più bella in bicicletta”» (Cosimo Cito). Il 21 aprile 1991, quattro giorni dopo aver vinto la seconda Freccia Vallone, Argentin conquistò anche la sua quarta Liegi-Bastogne-Liegi. «Le due classiche del Belgio centrate nello spazio di un anno: un exploit riuscito soltanto a Ferdi Kübler, a Stan Ockers e a Eddy Merckx. Nel caso della Liegi-Bastogne-Liegi, Argentin ha addirittura quadruplicato. Il suo nome figura quattro volte nel libro d’oro della più antica classica, della Doyenne, della decana. Il solo Eddy Merckx ha fatto meglio: cinque vittorie. Consumato il trionfo di Liegi, Moreno Argentin si è sentito paragonare a Merckx. Moreno, che è un ragazzo intelligente, di spirito e anche un tantino malinconico, ragionevolmente impressionato dalla comparazione, ha subito precisato: “Il giudizio mi lusinga… soltanto, io non sono Merckx. Io sono Argentin”» (Fossati). «Dal 1981 al 1994 è stato un protagonista assoluto del ciclismo mondiale. […] Ha vinto anche titoli italiani in pista, è stato dodici giorni in maglia rosa e azzurro in undici mondiali. […] Ha frequentato molto la pista: due titoli italiani junior, due da dilettante, uno da professionista. E una vittoria alla Sei Giorni di Bassano. “La pista è luogo di formazione. Alcide Cerato ci faceva allenare su strada e pista. Correre nei velodromi mi ha insegnato tanto, e qualche corsa da professionista l’ho vinta grazie a freddezza e colpo d’occhio acquisiti e affinati in pista. La pista dà qualcosa in più, il colpo di pedale giusto e il sapere come stare in bici, per vincere su strada”. […] Nel 1994 ha aiutato il suo compagno di squadra Berzin a vincere il Giro… “Tutti, in squadra, andavamo forte. Berzin era il giovane esordiente, con tanta voglia di imparare: gli abbiamo fatto tutti da ‘gregario’, io, Bontempi, Ugrjumov, Riis, Furlan”. Poi, concluso il Giro, a sorpresa, ha smesso: eppure quell’anno aveva già vinto Freccia Vallone, tappa e classifica al Giro del Trentino e una tappa al Giro. “Ma sentivo di non avere più la massima determinazione e la voglia di allenarmi 7-8 ore al giorno. Credo di aver smesso al momento giusto. Non dimentichiamo che ero al quattordicesimo anno di professionismo, e quegli anni si facevano sentire”» (Renzo Puliero). «Quando arrivi a un certo punto e vedi che fai fatica ad alzarti al mattino per andare ad allenarti, capisci che è arrivato il momento di appendere la bici al chiodo. […] Sono felice della scelta che ho fatto, perché volevo chiudere bene ed essere felice di tutto quello che sono riuscito a fare» (a Francesca Cazzaniga). «Da buon veneto ha saputo monetizzare gli anni della fatica: iniziative in campo immobiliare, un’avviata industria per la lavorazione del legno, i cavalli…» (Eugenio Capodacqua). Distaccatosi dall’ambiente ciclistico per diversi anni dopo un’esperienza come direttore sportivo della Roslotto, effimera squadra professionistica veneto-russa, dal 2018 Argentin organizza l’Adriatica Ionica Race, corsa a tappe che si propone di collegare le regioni bagnate dal mar Adriatico e quelle bagnate dal mar Ionio (finora, tuttavia, la regione più meridionale in cui è giunta sono le Marche) • Due figli, Matteo e Alice, dalla moglie Antonietta Cestaro • Si definisce «prodotto del basso Piave, innamorato di questa terra, tanto che vorrei presto prestare tutti i miei cimeli al nostro Museo della Bonifica» • «Argentin, faccia furba appuntita, uno da trattare con le pinze, un piccolo Cesare delle corse in linea. […] Di amici, Argentin, ne ha avuti pochissimi: non glien’è mai importato nulla, di averne. Un freddo, solitario cacciatore di traguardi» (Gianni Ranieri). «Un fuoriclasse tale da definire col proprio nome un’intera categoria di arrivi: “alla Argentin”, appunto. Meno potente ma un po’ à la Sagan di oggi: volata ristretta su strappetti che fan male, malissimo. Uno dei campioni più agonisticamente “cattivi” e cinici nella storia del ciclismo mondiale. Corridore e uomo d’intelligenza acutissima, duro e tagliente come un diamante. Ma che classe. […] Corridore brechtiano il Moreno, se ne è esistito uno» (Giordano). «Tanto di cappello davanti al ritratto di Moreno Argentin. Per due motivi: primo per aver vinto fior di corse, secondo per essere stato un direttore sportivo in bicicletta. Pedalatore di un’intelligenza acuta, capace d’intuire e di suggerire, di proporre e di lanciare un compagno di squadra, di sostenerlo nei momenti più difficili. […] Un pensatore e all’occorrenza un polemista, sicuramente un pedalatore che sapeva distinguersi in tanti modi» (Gino Sala). «L’Argentin pistard è sempre caduto nel tentativo di forzare un passaggio o un corridoio: magari, a causa di una imperfezione della strada (o della pista). Fra i purosangue, si direbbe, per coraggio e nobiltà di razza» (Fossati) • «Qual è la vittoria che più le è rimasta nel cuore? “La prima ‘Liegi’. Mi ha dato convinzione: lì ho rotto il ghiaccio, acquisito autostima e la consapevolezza di poter essere protagonista”. Rimpianti? “Non ho mai vinto la Sanremo: l’ho inseguita, cercata con tutte le mie forze, non ci sono riuscito. Sono stato secondo, una volta sono arrivato terzo, mai primo. Avrei dovuto avere ancora più convinzione”. Il giorno più bello? “Quando vinci un mondiale lontano da casa, come è successo a me a Colorado Springs nel 1986, l’emozione è altissima. Là ho coronato un sogno che avevo sin da bambino. È stata una giornata meravigliosa. Mi piace, poi, aver onorato la maglia iridata: il 1987 è l’anno in cui ho vinto di più”. […] Qual è l’avversario che le ha dato più fastidio? “Kelly: mi ha battuto a Sanremo, opportunista più di me”. E il più grande? “Hinault mi impressionava per temperamento, feroce determinazione e la capacità di vincere quando voleva. E, subito dopo, Indurain”» (Puliero) • «Argentin, se si gira indietro che cosa vede? “Ringrazio i miei genitori per avermi fatto nascere in quel periodo. Avevo fame. Adesso vedo in gruppo ragazzi mollicci, senza personalità. C’è in giro gente con poca fame, che guadagna bene già da juniores. I tempi sono diversi, le generazioni cambiano, hanno tutto già da piccoli. Ecco perché quando guardi le corse mancano le emozioni, mancano i corridori che ti facciano esaltare”» (Gialanella) • «Devo tutto alla bici: mi ha fatto esprimere come atleta e come uomo. È stata una palestra di vita che consiglio a tutti».