23 dicembre 2022
Tags : Giosetta Fioroni
Biografia di Giosetta Fioroni
Giosetta Fioroni, nata a Roma il 24 dicembre 1932 (90 anni). Artista. «Ho sempre voluto essere pittore. Per me non ci sono artisti al maschile o al femminile. C’è il talento» (a Rachele Ferrario). «Il Pop è una cosa americana. I miei lavori col Pop hanno poco a che fare: i miei sono ideogrammi di malinconia» (ad Andrea Cortellessa) • «Mia madre mi aveva chiamata Giosetta perché aveva visto La bella e la bestia di René Clément e Jean Cocteau, dove l’attrice che interpretava Bella si chiamava Josette Day, una svampita incantevole. Aveva anche provato a registrarmi all’anagrafe con questo nome, ma all’epoca non glielo permisero». «I miei genitori erano entrambi artisti, e io sono stata “educata”, o se vogliamo dire esposta in maniera continuativa, alla meraviglia. Mio padre, Mario Fioroni, era uno scultore. Ci sono delle foto di me bambina che lo guardo e tento di capire quello che fa. Mia madre, invece, Francesca Barbanti, pittrice, costruiva per me incredibili teatrini e marionette con pezze e vecchi vestiti. Essere la spettatrice privilegiata di quei piccoli spettacoli m’incantava e al tempo stesso mi abituava a non capire, a stare in sospeso, in una posizione interrogativa» (a Sara De Simone). «Ancora questa madre creativa la conduce verso la letteratura: “A 17 anni mio nonno la portò a Parigi. Lui volle farle un regalo. Lei chiese la prima edizione della Ricerca del tempo perduto di Proust. Conservo ancora i meravigliosi volumi Gallimard. E la sua biblioteca: i romanzi russi, quelli francesi… Sono cresciuta prima guardandoli e poi leggendoli”» (Paolo Conti). «Ha sempre voluto essere un’artista? “Mi sembra di sì, da sempre. Appena avevo una matita a portata di mano tutto si trasformava in forme e immagini. A dodici anni la consapevolezza fu più chiara: volevo fare il pittore”. Il pittore? Perché si definiva al maschile? “Mi sembrava più interessante. ‘Pittrice’ non mi piaceva, anche da un punto di vista fonico. Ma so che adesso non va più bene dirlo, quindi propendo per ‘artista’”» (De Simone). «Una vocazione richiede un maestro che indirizzi il fervore. Chi è stato per lei? “Sicuramente Toti Scialoja. Quando mi iscrissi all’Accademia rimasi molto delusa dalla scarsa qualità dei professori. Un giorno vidi un cartellino: ‘Corso libero del professor Scialoja domani alle 10’. Ignoravo chi fosse. Entrai e ne uscii alle 4 del pomeriggio: il tempo scorse via in un lampo. Partiva dal teatro russo d’avanguardia, da Stanislavskij e Mejerchol’d, passava per il cinema comico americano sempre d’avanguardia, cioè Buster Keaton, e approdava all’action painting, Jackson Pollock e Willem de Kooning. Ho scritto così: […] ‘Le sue lezioni sono state per me, e non solo per me, una vera e propria iniziazione erotica all’espressività’. Siamo rimasti amici per sempre, fino alla sua morte”. Scialoja è solo il primo nome di una vita densissima di incontri, di scambi, di avventure intellettuali. Alexander Calder nel 1956. E, grazie a Scialoja, Alberto Burri (“Nel suo studio di via Aurora, dietro via Veneto, scoprii i suoi lavori sulle muffe e sulle tele di sacco: ne rimasi colpitissima”). Quindi Gastone Novelli, Piero Dorazio, Achille Perilli» (Conti). «Partecipa alla VII Quadriennale di Roma del 1955 ed è presente l’anno successivo alla XXVIII Biennale di Venezia. Nel 1957 è Emilio Vedova che tesse parole di elogio per i suoi dipinti astratti, “un’antipittura esistenziale”, in una lettera inclusa nel catalogo della sua prima mostra a Milano. Nel 1958 Fioroni frequenta l’amico Cy Twombly, pittore che, ispirato dalla mitologia classica e dal genius loci della Città Eterna, riempie di frasi, scritture e segni i suoi quadri di puro bianco. […] Un pittore attento alla scrittura come lo sarà la stessa Fioroni, che in quegli anni abbandona l’informale» (Giancarlo Felice). «Non è stato facile essere artista e donna. Avevo 25 anni. Avevo portato delle opere alla galleria di Carlo Cardazzo, allora una tra le più importanti in Italia. Stavamo aspettando un collezionista, e, quando arrivò, Carlo mostrò le mie opere appoggiate a terra. Io ero lì, intimidita, nascosta nella penombra. Ascoltavo la conversazione in silenzio. Il collezionista guardava incuriosito, sembrava davvero interessato, apprezzava il lavoro. Poi, poi si soffermò sulla firma, scandendo a tratti il mio nome: “Gio, Gio, setta… chi è questa Giosetta?”. “Un’artista bravissima, promettente”, rispose il gallerista. Ma il collezionista lo bloccò subito: “No, no, una donna no: poi si sposa, fa i figli, non dipinge più… No, non dà sicurezza”. Questo è stato il mio primo contatto con il mondo dell’arte visto dagli uomini» (a Gianluigi Colin). «Il matrimonio tra la pittrice Giosetta Fioroni e l’ingegner Ippolito Nievo durò solo tre anni: “Nel ’56 andai alla Biennale, dove avevo esposto tre quadri, e presi una cotta per un pittore bellissimo. Andammo tutti a cena e poi a ballare: lo vidi da lontano che si alzava e pensai ‘Sarebbe meraviglioso se invitasse me’. Mi arrivò davanti e disse: ‘Come sei carina: vuoi ballare con me?’. Io quasi gli svenni tra le braccia. Non ci siamo mai lasciati, per due giorni”. Abbandonato il marito con pochi rimpianti (“Era già da un po’ che ci pensavo”), se ne andò a Parigi: “Il bel pittore naturalmente prese il largo, ma mi consolò Germano Lombardi, scrittore. Una persona strana, speciale. Siamo stati insieme sette anni”» (Paola Zanuttini). «Quelli – tra gli anni Cinquanta che finivano e i Sessanta che iniziavano – “furono gli ultimi bagliori del mito di Parigi. Quindici anni dopo volevano andare tutti a New York”. […] Sembrava stare tutto a Parigi, tutto il mondo nuovo che si preparava. Giosetta Fioroni c’era. “La prima volta sono andata nel ’57, sono rimasta alcuni mesi. Poi sono tornata nel ’58 – mi ero intanto separata da mio marito, l’ing. Nievo – fino al ’61. E poi ancora dal ’62 al ’63”. E tutto quel mondo conobbe, la giovane pittrice» (Stefano Di Michele). «Mi sentivo molto libera. […] Ricordo che la sera si andava spesso al Petit Dôme. Lì capitava di incontrare Samuel Beckett. Era quasi sempre solo, parlava pochissimo e beveva whisky. Teneva gli occhi bassi e, quando li alzava, vedevi due stelle che ti trafiggevano. Di lui mi colpì il particolare che anche d’inverno non portava calze. Una volta mi soffermai su questo dettaglio e lui disse: “Sta guardando le mie gambe?”. “Sì, le trovo bellissime”, risposi. Volse lo sguardo altrove. Era essenziale, come la sua opera» (ad Antonio Gnoli). «Lei ha lavorato a Parigi nello studio di Tristan Tzara, il padre del dadaismo. L’ha influenzata? “Ricordo Tzara come un vecchio bilioso, perennemente arrabbiato con la realtà che lo circondava. Non ne fui influenzata ma aveva una casa piena di opere meravigliose: Picasso, Léger, grafiche di Breton, manoscritti di Éluard… È stata un’esperienza conoscitiva unica anche per gli artisti che incontrai con lui, come Giacometti, ad esempio. Si sollevò un velo su un mondo di figure mitiche”. Quando rientrò in Italia incontrò Schifano, Festa, Angeli, e fu tra i fondatori della Scuola di piazza del Popolo… “Fu quasi tutto casuale. Negli anni Sessanta ci incontravamo a piazza del Popolo per la cena, per fissare una giornata al mare. Fui anche il tramite con il Gruppo 63: Balestrini, Eco. Da un punto di vista artistico il luogo era la galleria La Tartaruga, dove passavano Duchamp e le nuove leve, cioè Kounellis, Pascali…”» (Paolo Vagheggi). «I protagonisti della Scuola di piazza del Popolo erano legati […] da un nuovo linguaggio, un’arte pop tutta all’italiana. Qui nasce un dialogo tra le discipline, che ha permesso a Giosetta Fioroni di cogliere riferimenti che ritroviamo nella sua produzione, un’incursione di simboli e di elementi del quotidiano che vengono trasferiti nelle sue opere d’arte» (Gemma Gulisano). Come i suoi colleghi, la Fioroni «mira a salvaguardare il gusto per la figurazione, evitando di spingersi verso i territori del concettualismo. La sfida: saldare il gusto comunicativo della Pop Art con la storia dell’arte. Arricchendo l’“impasto” di segreti rinvii autobiografici» (Vincenzo Trione). «A Roma Giosetta Fioroni recupera la storia e le radici, ma assorbe anche molte novità. Cita i grandi italiani dell’arte (Botticelli, Simone Martini, Carpaccio) e inventa i “Quadri d’argento”: texture metalliche di volti sconosciuti e anonimi della vita moderna, ritratti emblematici anche di un’Italia rurale spazzata via dalla incalzante deriva televisiva, con i quali, invitata da Maurizio Calvesi, approderà alla Biennale di Venezia del 1964 (la Biennale della Pop Art)» (Felice). «L’argento è memoria, recupero e sospensione di tempi differenti» (ad Antonia Matarrese). «Nei miei quadri c’è la manualità della pittura, il legame a uno spazio metafisico. È una pittura volutamente a-ideologica. Soprattutto, inseguo un racconto, una narratività. Eravamo coetanei del Pop, ma profondamente lontani da quella cultura. Sono più vicina a Morandi che ad Andy Warhol». Nel 1964, a Roma, conobbe lo scrittore Goffredo Parise (1929-1986). «Lo incontrai a casa di un’amica. Era antipaticissimo: “Queste scarpe le ha comprate da Ferragamo, costano eh? Questa stoffa è scadente, invece? Io la osservo, sa, la vedo anche al bar Rosati quando fa la pittrice. Ma la fa sul serio, la pittrice?”. Insopportabile. Poi cominciammo a vederci. Siamo stati insieme 24 anni. Ci sono stati molti drammi, però è stato l’uomo della mia vita. E io la donna della sua». «Insieme a lui ho conosciuto scrittori e poeti con cui ho intrecciato rapporti di rara e speciale amicizia: Raffaele La Capria, Andrea Zanzotto, Guido Ceronetti. Alcuni sono ancora vivi, molti altri morti. Ma li ricordo tutti». «I pittori e gli scrittori sperimentavano e interagivano fra loro. Nanni Balestrini aveva scritto una poesia in occasione della mia personale alla Tartaruga e insieme avevamo pubblicato versi. Fu la prima di una serie di collaborazioni con scrittori e poeti per la realizzazione di libri. E non solo. Particolarmente importante quella con Alberto Arbasino per l’allestimento e la creazione dei costumi di Carmen al Teatro Comunale di Bologna nel 1967, di cui curava la regia. Insieme abbiamo fatto anche un libro, Luisa col vestito di carta». «Potrei dire che ne ho fatte di tutti i colori… Non ho molto da rimpiangere. Nel 1968 ho inaugurato il teatro delle mostre alla galleria La Tartaruga con una performance che si chiamava La spia ottica. I visitatori passavano davanti a uno spioncino e mi vedevano all’interno di una stanza. Ricordo questo come uno dei tanti esperimenti che ho fatto e che hanno suscitato qualche scalpore. Forse avrei dovuto approfondire di più alcune cose, e questo è un rimprovero che mi faccio, ma sono sempre stata attratta dal cambiamento. L’eclettismo è nella mia natura». Quello con Parise fu «un intenso sodalizio intellettuale e affettivo: Goffredo diventa soggetto del suo dipingere e Giosetta prepara la copertina dei suoi Sillabari. In mezzo alla campagna veneta intorno a Treviso, dove il compagno ha acquistato nel ’70 una casa immersa nel bosco, studia le fiabe, scopre Vladimir Propp, compone gli Spiriti silvani: disegni e collage, storie magiche di fate ed elfi ispirate da quel paesaggio bucolico, confluiti poi in una mostra nel ’74 (alla Galleria De’ Foscherari di Bologna) e nel 2001 in un libro, Patanella dreams, con disegni di Fioroni e poesie di Franco Marcoaldi. Non ha mai abbandonato la fotografia e nel 1976 compone Atlante di medicina legale, in cui – nelle immagini fotografiche – l’artista incastona scrittura e segni che identificano, commentano e raccontano i temi del travestimento, l’assurdo che inquieta il genere umano e che, stridente, lo attrae» (Felice). «Nel ’93 è di nuovo alla Biennale di Venezia, dove tornerà nel ’95 per la mostra “Percorsi del gusto”. Intanto, nella Bottega Gatti, a Faenza, ha cominciato a lavorare la scultura in ceramica. Realizzerà lì diversi cicli di opere: i teatrini, le sedie, i piccoli teatri shakespeariani, i piatti, le formelle» (Nadia Fusini). «Di particolare interesse una scultura in resina del 2002 che la ritrae bambina con lunghe trecce e paltò (il titolo dell’opera è Giosetta con Giosetta a nove anni), tenuta per mano da una Giosetta adulta» (Carlo Franza). «Quello di Giosetta […] è un mondo colorato che prende forma […] con i simboli ricorrenti che sono sempre un pensiero rivolto all’infanzia perduta, a una leggerezza caleidoscopica: il cuore, la stella, le piccole case, il teatrino delle marionette, il mondo protetto dell’infanzia da tenere sempre davanti agli occhi come un rifugio. Le carte argentate, i disegni, i collage, le ceramiche, i teatrini: non c’è un fronte dell’arte che Fioroni non abbia esplorato, spaziando dalle gloriose Biennali anni Sessanta, ai tempi dei furori pop, fino alle più recenti sperimentazioni di scenografia e fotografia nella serie Senex, con l’amico fotografo e curatore Marco Delogu, scatti che fanno di lei un personaggio teatrale» (Francesca Giuliani). In seguito, ancora insieme a Delogu realizzò il progetto L’altra ego, «una serie di immagini che corrispondono ad altrettanti ritratti di ciò che sarei potuta essere, o diventare. Una galleria di identità alternative, o di aspetti di me inespressi, latenti, impossibili» (a Emanuele Trevi). «Sono davvero contenta in quanto continuo ad arricchire con la mia arte spazi istituzionali come il ministero dei Trasporti. Questo progetto espositivo si ricollega al progetto curatoriale legato al Quirinale contemporaneo, cui ho destinato in comodato d’uso altre due opere che sono state esposte per tre anni e che continueranno a esser presenti presso la Fondazione del Quirinale contemporaneo. Sono molto legata a questo progetto, in quanto è vòlto ad aggiornare l’immagine delle sedi istituzionali tramite l’inserimento di rilevanti espressioni del genio e dell’estro degli artisti italiani, dalla nascita della Repubblica ai nostri giorni» (a Gianni Maiellaro) • Nel 2013 ha pubblicato presso Corraini My Story. La mia storia, autobiografia riccamente illustrata • La gelosia per un’altra relazione della Fioroni, iniziata dopo che lo stesso Parise l’aveva lasciata per un’altra donna, ispirò allo scrittore il romanzo L’odore del sangue (Rizzoli), completato nel 1979 ma consegnato alle stampe dalla Fioroni solo nel 1997, dietro le insistenze di Cesare Garboli • Nel 2015 è stata costituita la Fondazione Goffredo Parise e Giosetta Fioroni. «Il nostro era un sentimento profondo di “congiunzione”, di vera affinità elettiva, di naturale e felice condivisione su ogni cosa. Questa è stata la nostra vita. E per questa ragione mi è venuto spontaneo associare, oggi, il mio nome a quello di Goffredo per celebrare l’unica vera attività della nostra vita: l’arte» • «Lo ama ancora? “Certo che lo amo ancora”» (Ferrario) • Lo studio della Fioroni, a Trastevere, «appare come uno spazio sospeso nel tempo, qua e là opere recenti e pezzi storici. Intorno, tra pennelli e colori, un insieme di manifesti, ritagli di giornali, foto di Parise, schizzi, fotografie di amici: su tutto, isolato, un ritratto di Mario Dondero (“Mario ha il dono della grazia: che uomo speciale”)» (Colin) • «Non sono mai stata femminista: ho sempre amato di più la femminilità. Ero controcorrente» • «Nonostante lo scorrere degli anni Giosetta Fioroni conserva (per esempio nel modo di muoversi o di pettinarsi i capelli sciolti o di vestirsi scegliendo colori accesi) quella sveltezza descritta, con intelligente affetto, dal compagno della sua vita, Goffredo Parise: “Giosetta Fioroni è una persona che cammina in modo leggero… Certe volte, non vista, quando ha un po’ fretta saltella come una scolaretta che vuole riprendere il tempo perduto per leggerezza”» (Conti) • «Tutto quello che ho imparato a fare si è distinto e organizzato attorno alla meraviglia. Miti, riti, magie mi hanno sempre affascinata, anzi catturata. Nel loro complesso, naturalmente, che comprende anche l’oscurità, lo spaesamento, la paura» • «Io ho scelto la via del sentimento» • «Per me un aspetto importante resta quello letterario. Negli archetipi della letteratura cerco di costruirmi altre identità. […] Prima dei libri c’è sempre la grafia, la mia passione per la scrittura a mano, per l’ideogramma e la calligrafia emotiva» • «Autrice di un’involontaria Recherche, Fioroni si serve di media diversi per dipingere quadri abitati da barlumi fugaci: volti, gesti, sguardi. Come un archivio di momenti perduti. Impronte di quotidianità. Brandelli d’infanzia. Infine, iconografie perturbanti, tracce di angosce latenti, oscure disperazioni che agitano l’inconscio, in attesa di trovare possibili risonanze. L’arte si dà come diario privato portato in pubblico, tentativo di rielaborare emozioni e ferite. […] Anche nelle sue più recenti prove si può cogliere quel talento che era stato elogiato con finezza da Giuliano Briganti: “Una caparbia aspirazione alla delicatezza, alla leggerezza, alla grazia, […] una solitaria attitudine al gioco, come il ricordo dolcissimo, struggente, di stanze, di giardini, di piccole cose piene d’anima”» (Trione) • «Giosetta Fioroni è l’esatto contrario di un’artista serenamente appagata da quello che ha fatto. Ha custodito in sé la fiammella dell’inquietudine e dell’esperimento, che forse, di tutte le componenti dell’ispirazione, è la più fragile e insieme la più preziosa. E dire che […] Germano Celant ha dedicato ai suoi dipinti una splendida monografia (edita da Skira), un vero e proprio monumento critico, di quelli che si possono dire definitivi. Eppure, non c’è monumento, non c’è riconoscimento che potrebbe mettere Giosetta al riparo dalla suprema tentazione: che è pur sempre quella di rimettere tutto in gioco, affrontando le nuove idee con la trepidazione dell’esordiente. […] “Che vuoi che ti dica: […] ancora amo tutto della vita”» (Trevi) • «Ho avuto un grande dono dalla vita, che è il lavoro, e […] finché posso lavorare non mi voglio lagnare: fino a quando avrò l’energia necessaria sarò molto felice».