30 dicembre 2022
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Biografia di Giovanni Orsina
Giovanni Orsina, nato a Roma il 31 dicembre 1967 (55 anni). Storico. Politologo. Attualmente, direttore della Luiss School of Government e del master in European Studies (da lui stesso fondato) e professore ordinario di Storia comparata dei sistemi politici europei e di Storia del giornalismo e dei media elettronici presso la facoltà di Scienze politiche della Luiss Guido Carli di Roma. «Come diceva Roberto Vivarelli, lo storico è una creatura inesistente: esiste la persona di cultura che ama la storia. Per riuscire a capire la storia bisogna anzitutto capire l’essere umano, e uno dei modi migliori per farlo è leggere un buon romanzo» (a Simone Furfaro) • Nato in una famiglia della borghesia intellettuale della capitale, in cui entrambi i nonni si trasferirono nei primi decenni del Novecento (dalla Sicilia quello paterno, giornalista; dalle Marche quello materno, funzionario ministeriale), è figlio del giornalista Paolo Orsina, cronista parlamentare di lungo corso, dapprima vice di Gustavo Selva alla direzione del Gr2 e poi direttore egli stesso tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta; ha inoltre un fratello, Luigi Orsina, attualmente professore di Analisi matematica alla Sapienza. Cresciuto quindi in un ambiente culturalmente stimolante e florido di libri, si appassionò presto alle materie umanistiche, e in particolare alla storia: percorso brillantemente l’iter scolastico, si laureò con lode nel 1991 in Scienze politiche presso la Luiss Guido Carli di Roma con la tesi I radicali a Roma (1902-1907), partecipò a uno dei primi programmi Erasmus (con soggiorno a Londra) e, completati un dottorato di ricerca in Storia dell’Italia contemporanea presso la Terza Università di Roma e un post-dottorato a Oxford, iniziò la carriera accademica. Dopo alcuni anni trascorsi a insegnare tra l’Italia – Forlì (Università di Bologna), L’Aquila e Roma (Università La Sapienza) – e l’estero – Parigi (Istituto di studi politici) e Cachan (Scuola normale superiore) –, dal 2005 si è stabilito principalmente alla Luiss, dapprima come professore associato e poi come ordinario. Nel frattempo, sin dagli anni universitari, ha spesso collaborato con alcuni quotidiani, quali il Giornale, Il Mattino e, attualmente, La Stampa, applicando all’analisi della politica italiana la prospettiva dello storico del pensiero politico. Agli anni dell’università risale anche la sua frequentazione con Gaetano Quagliariello (all’epoca assistente di Paolo Ungari, relatore della tesi di Orsina alla Luiss), col quale peraltro costituì – insieme a Eugenia Roccella – il nucleo storico di Ideazione, rivista di area Forza Italia fondata nel 1994 da Vittorio Mathieu e Domenico Mennitti allo scopo di «alimentare la cultura liberale in Italia», curando anche nuove traduzioni di importanti testi del pensiero liberale. Notevole anche la sua produzione saggistica, che, dapprima rivolta principalmente al passato prossimo (Senza Chiesa né classe. Il partito radicale nell’età giolittiana, Carocci, 1998; Anticlericalismo e democrazia. Storia del partito radicale a Roma e in Italia. 1901-1914, Rubbettino, 2002; L’alternativa liberale. Malagodi e l’opposizione al centrosinistra, Marsilio, 2010), si è poi maggiormente concentrata sul presente, mantenendo tuttavia inalterato il proprio robusto afflato storico. Grande interesse destò nel 2013 Il berlusconismo nella storia d’Italia (Marsilio), in cui «Orsina ripercorre, con dovizia di particolari, l’ascesa, il consolidamento e il declino del berlusconismo, contribuendo a smantellare i non pochi luoghi comuni che sono stati avanzati in questi anni. Come quelli relativi all’elettore berlusconiano, generalmente considerato più attento agli spot della tv commerciale che non alla sostanza – e all’essenza – del messaggio politico vero e proprio. Crollano anche le non verità su Forza Italia, vista dai più alla stregua di club elettorale, che per scelta non optò mai per un radicamento territoriale. Orsina offre al lettore una ricostruzione storica attenta, precisa e puntuale, libera da giudizi e soprattutto da pregiudizi. […] Nel testo lei definisce il berlusconismo un’emulsione di liberalismo e populismo. Potrebbe spiegarci le ragioni che l’hanno portata a questa valutazione? “Ho cominciato a scrivere questo libro pensando che il berlusconismo fosse un fenomeno complesso. Nello scriverlo mi sono accorto che mi ero sbagliato: il berlusconismo è stato un fenomeno molto complesso. È durato a lungo ed è mutato nel tempo. Ha usato svariati registri ideologici e comunicativi. Ha governato per anni. In particolare, era evidente il carattere populista della leadership berlusconiana: la ‘santificazione’ del popolo italiano, la critica del professionismo politico, il ‘ghe-pensi-mì-smo’, l’uso della tv, l’impazienza nei confronti dei lacci e lacciuoli, un atteggiamento complessivamente semplicistico di fronte ai problemi storici. Allo stesso tempo, però, questi stessi temi, se osservati da un punto di vista differente, e anche altri argomenti della retorica berlusconiana, erano molto semplicemente temi liberali – seppure di un liberalismo di estrema destra. Individuare l’equilibrio fra questi elementi, mescolati gli uni agli altri ma distinti, non era facile. La formula dell’emulsione mi ha consentito di conservare un giudizio – spero – equilibrato e fedele di fronte a questa commistione ideologica complessa”» (Angelica Stramazzi) • Nel 2018 fu poi la volta di La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio), dove con narcisismo s’intende l’atteggiamento proprio di quanti «utilizzano in ogni ambito sé stessi come misura e parametro di tutte le cose. […] Infatti, il professor Giovanni Orsina […] ha descritto, abilmente e in maniera convincente, i caratteri antropologici e psicologici che l’archetipo del cittadino democratico ha assunto negli ultimi trecento anni all’interno delle società occidentali (e di quella italiana in particolare), dimostrando come si siano sempre più intensificati i tratti narcisistici nell’uomo qualunque. Ricostruendo il pensiero di Alexis de Tocqueville, Ortega y Gasset e Johan Huizinga, il professor Orsina è giunto alla conclusione, del tutto condivisibile, secondo la quale storicamente la democrazia tende a degenerare in un regime al cui interno l’individuo diventa uomo-massa, un soggetto che, “convinto com’è delle proprie ragioni, e maldisposto a riconoscere che chicchessia possa saperne più di lui e sovrastarlo, non s’accontenta più di scegliere chi governa, ma pretende di governare direttamente, in prima persona, di imporre e dar vigore di legge ai suoi luoghi comuni da caffè”. […] Il professor Orsina ricostruisce le principali tappe che hanno visto l’intero sistema politico occidentale (e italiano in special modo) cedere di fronte alle pressanti richieste dei narcisisti democratici di governarsi da sé, seppur privi di adeguate conoscenze e competenze» (Rocco Todero) • Quello stesso anno, a fine agosto, ebbe particolare risonanza una sua intervista, pubblicata su Il Foglio, a proposito degli equilibri politici da cui era da poco sorto il governo Conte I. «“Roma è caduta, e rimpiangerla non servirà a granché. Cerchiamo almeno, allora, di romanizzare i barbari”. […] “C’è innanzitutto – esordisce Orsina – […] un difetto di analisi genetica di questi cosiddetti ‘populismi’. Che non nascono dal nulla a innescare la degenerazione, ma che semmai, di questa degenerazione profonda e per certi versi irreversibile, sono il sintomo. Le radici del M5s e di questa Lega salviniana stanno nello svilimento continuo del dibattito pubblico, nello scadimento della classe dirigente italiana, nella crescente inciviltà dell’elettorato. Di questa corruzione della politica sono una conseguenza, non una causa”. […] “Mettiamoci nei panni di un elettore del Carroccio o del M5s. Un elettore, cioè, che con maggiore o minor consapevolezza ha votato il 4 marzo affinché la politica democratica riprendesse il proprio primato sui vincoli esterni, sovranazionali, tecnocratici. Se il governo cadrà a causa dello spread, della minaccia dei mercati o di Bruxelles, quell’elettore non penserà di avere sbagliato, nel mettere la sua ‘X’ sulla scheda, ma anzi verrà confermato nelle sue convinzioni sull’inaccettabile ingerenza esterna di poteri antidemocratici. E se ci va bene, al prossimo turno, deciderà di astenersi, ché tanto nulla può cambiare; se bene non ci va, voterà Forza nuova”. […] Come si può reagire? “Semplicemente, sforzandoci di normalizzare i nuovi vincitori: costringerli o aiutarli, a seconda dei casi, a trovare un compromesso tra il desiderio della palingenesi e gli obblighi della realtà”. Romanizzare i barbari, insomma. “Appunto. Lo so bene, che è una via strettissima, e la propongo con enormi perplessità. Ma l’altra [costruire una valida alternativa – ndr] […] in definitiva mi pare più stretta ancora”. Per farlo, però, “bisogna smetterla, di alimentare la contrapposizione tra intelligencija e popolo, tra cui c’è del resto una frattura che forse è già irrecuperabile”. […] Meglio, quindi, “aprire un dialogo, provarci almeno. Sia da destra sia da sinistra, con quelle componenti più ragionevoli della Lega da un lato, e del M5s dall’altro”» (Valerio Valentini) • Undici mesi dopo, poco prima della crisi del Conte I, dichiarò che, sebbene quell’appello fosse caduto nel vuoto, «se analizziamo l’azione politica di questo governo, bisogna riconoscere che, di compromessi con Roma, questi barbari ne hanno fatti parecchi». Da ultimo, nel febbraio 2022, ha pubblicato Una democrazia eccentrica. Partitocrazia, antifascismo, antipolitica (Rubbettino), in cui analizza «i fattori e il clima che portarono alla deflagrazione della Prima Repubblica, con effetti ancora evidenti sul nostro sistema a trent’anni di distanza. […] Professore, quale fu il “concorso singolare di circostanze” che portò alla crisi del sistema italiano a partire da quel 17 febbraio 1992? […] “Fino a quel momento tutto si reggeva su due elementi: un sistema bloccato e una spesa pubblica usata come strumento di ricomposizione di conflitti in epoca di Guerra fredda. Con l’89 salta il primo tassello, con lo stringersi dei vincoli di Maastricht nel ’92 viene meno il secondo. Il sistema istituzionale sopravvive, quello dei partiti no”. Qual è il bilancio di quella stagione? “Largamente negativo. Si generarono spinta ed emozioni antipolitiche fortissime, con l’idea che della politica si potesse fare a meno. La Seconda Repubblica che prenderà forma dal ’94 si baserà su due interpretazioni dell’antipolitica: da un lato quella berlusconiana, che ritiene che il Paese debba essere messo nelle mani degli imprenditori; dall’altra quella della sinistra, con l’idea della moralità in politica, spesso certificata dai magistrati. L’idea, cioè, che basti l’onestà perché tutto si risolva”. Non è la stessa idea dietro l’ascesa del Movimento 5 stelle? “Il Movimento 5 stelle emerge prendendo tutti i temi della retorica anti-berlusconiana e dell’antipolitica moralistica per rivolgerli contro la sinistra stessa. È chiaro che così il sistema non può funzionare”. Dopo la svolta istituzionale dei Cinque stelle, qual è ora il contenitore dell’antipolitica? “Non c’è. Quello che rimane è un cumulo di macerie. L’antipolitica quando va al governo si fa politica”. […] La bandiera dell’antipolitica è ammainata? “Ora è nelle mani di movimenti come Fratelli d’Italia e Lega, guidati da politici di professione che non hanno fatto altro nella vita e non sono antipolitici ma si propongono di restaurare la politica. Punto sul quale Matteo Salvini è più ambiguo, mentre Giorgia Meloni si presenta come la quintessenza della politica. Che la proposta sia in grado di funzionare, è un altro paio di maniche. In ogni modo, per prendere forma la politica ha bisogno di tempo”» (Riccardo Ferrazza) • Di recente indicato da Il Foglio come uno dei consiglieri occulti di Giorgia Meloni, respinge la definizione con forza («stronzate»), dichiarando di conoscere il presidente del Consiglio, «come molti miei colleghi», ma di non sentirla da mesi: «Ovviamente, per la mia professione, offro le mie analisi politiche, ma lo faccio pubblicamente, non in colloqui privati». Attualmente sta lavorando a un breve saggio sul conservatorismo post-populista, in cui analizzerà il modo in cui il populismo, inteso come «ribellione antropologica contro l’astrattezza politica e contro processi storici come la globalizzazione», ha modificato le ideologie. Tra i suoi progetti di più lungo termine, una storia di Tangentopoli e una storia dell’ottimismo negli anni Novanta • «Non crede che oggi il “barbaro” più romanizzato sia Di Maio, e che però questo abbia determinato il suo fallimento elettorale? Non crede, cioè, che, oltre agli eletti, sia necessario romanizzare gli elettori? “Certo: l’errore di Di Maio è stato infatti romanizzarsi dimenticando il proprio elettorato, che invece – ed è proprio quel che ho sempre inteso con quel discorso – è necessario portare con sé all’interno delle istituzioni, come a modo loro sono riusciti a fare tanto la Meloni quanto Conte”» (Furfaro) • Due figli, avuti dalla donna che ama da oltre vent’anni • Cattolico, con una particolare predilezione per Benedetto XVI. «Ratzinger è stato sicuramente il Papa più importante per me, per profondità intellettuale e per affinità culturale» • Politicamente si definisce «di religione liberale e di confessione conservatrice» • Romanista, «anche piuttosto acceso» • Oltre che per i romanzi (attualmente sta leggendo Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo), ha una grande passione anche per la musica classica (sinfonica e, soprattutto, da camera) e per le serie televisive («spesso migliori di gran parte del cinema contemporaneo»), ma anche per i grandi registi italiani, come Federico Fellini e Sergio Leone • Da anni si applica discontinuamente allo studio della chitarra classica, con l’ambizione – finora, a suo dire, frustrata – di riuscire a eseguire alcuni difficili pezzi di Bach, compositore da lui particolarmente amato • «Non è propriamente un “sinistrologo”. Le sue ricerche e i suoi interventi hanno sovente riguardato il mondo liberale nella storia politica italiana, da Giovanni Malagodi, leader del Pli che si oppose al centrosinistra, fino a Silvio Berlusconi, di cui Orsina è stato un critico attento ma anche spesso impietoso» (Goffredo Pistelli) • Tra i suoi maggiori bersagli polemici, quella che definisce «indignazione cosmica», «quell’indignazione che, malgrado all’inizio sia stata generata da fatti specifici, poi li ha trascesi, e s’è trasformata in una sorta di condizione dello spirito: uno stato d’animo autosufficiente, pervasivo e permanente; che non ha più bisogno della realtà per sostenersi ma, al contrario, determina il modo in cui la realtà viene letta; e che in breve tempo si dilata a dismisura e inghiotte qualsiasi avvenimento, cosa o persona. Che inghiotte, alla fine, l’intero Paese. […] Facile, economica, di sicuro successo, […] l’indignazione cosmica è stata una risorsa straordinaria per i media e la politica, ai quali toccano non poche responsabilità per la sua crescita smisurata» • «“È un errore madornale, scriveva Ortega nel 1922, saltare dal fallimento di un’élite alla conclusione che si possa fare del tutto a meno di qualsiasi élite, in virtù magari di teorie politiche e storiche che presentano come ideale una società esente da aristocrazia”. “Poiché questo è positivamente impossibile”, concludeva il filosofo, “la nazione accelera la sua parabola di decadenza”. […] La presenza di un’élite è condizione necessaria – ancorché non sufficiente – di un’azione politica e amministrativa minimamente sensata. E […] un’élite non è un insieme casuale di persone più o meno competenti selezionate sul web o spulciando curricula, ma una creatura storica complessa e delicata, che per nascere e svilupparsi ha bisogno di tempo, risorse, regole, fiducia, valori e linguaggi condivisi. Un’élite assomiglia insomma parecchio a quella cosa detestabile che chiamiamo “casta”: non è facile distinguere l’una dall’altra, tanto gli aspetti positivi dell’élite e quelli negativi della casta sfumano gli uni negli altri. […] Per odio verso le caste abbiamo distrutto le élite e i luoghi nei quali potevano formarsi. A tal punto che oggi non troveremmo un’élite politica neppure a volerla» • «I molti italiani che, come me, sono entrati nell’età adulta nei dintorni del 1989 sono maturati sentendosi dire che la politica, in fondo, non serviva più. Era finita la storia, quindi non c’era più bisogno di affrontarla politicamente. Erano finiti gli Stati-nazione, i soggetti entro i quali e fra i quali si svolgeva la politica. Era finito il potere, ossia il cardine su cui ruota la politica. […] Gli Stati-nazione (e i loro confini), il potere (per il quale si fanno le guerre), la storia (entro la quale si tracciano i confini e ci si scontra per il potere) non sono finiti proprio per niente. La fine della politica era un miraggio, l’illusione di una stagione effimera. La realtà era, ed è, una crisi gravissima della politica, dalla quale faremmo bene a uscire il più velocemente possibile, perché di politica invece c’è ancora un gran bisogno. Il problema, però, è che nel frattempo abbiamo disimparato che cosa voglia dire far politica. […] Si è consolidata la sensazione, potentemente alimentata dagli stessi politici e dai media, che la politica non sia altro che un trastullo fatuo, effimero, privo di conseguenze. Un gioco, ancora una volta, da irresponsabili. Dal Medio Oriente e dall’Africa, ma anche dalla Russia e dalla Cina, arrivano segnali sempre più chiari che questa irresponsabilità potrebbe costarci molto cara. Di fronte a questi segnali faremmo bene a rimparare quanto prima, eletti ed elettori, che la politica non è affatto finita; che ha delle regole ben precise e va fatta da chi la sa fare; e soprattutto che non è affatto un gioco, ma un’attività tragica, nella quale talvolta si decide della vita e della morte».