Robinson, 31 dicembre 2022
Gian Galeazzo Sanseverino, l’unico “ uomo d’arme” messo alla sbarra dall’Inquisizione
Quando, nella notte del 4 dicembre 1570 il bargello di Parma svegliò nel cuore della notte Gian Galeazzo Sanseverino nel suo Palazzo di Colorno per arrestarlo con l’accusa di eresia, prese avvio l’unico processo conosciuto dell’Inquisizione a un uomo d’arme: e inizia il vivido e colto legal thriller della nostra illustre Cinquecentista Gigliola Fragnito, Il condottiere eretico ( Il Mulino, pp. 222). Gian Galeazzo era valorosissimo guerriero, messosi al servizio della corte di Francia e digiuno di qualsiasi nozione teologica («sono stato a centomila sermoni cattolici et non me ne ricordo manco niente»); negli interrogatori perdeva la pazienza, protestando che alla corte francese «d’arme e d’amore si ragiona, e non d’altro». Tanto che con sottigliezza “fiorentina”, la regina madre di Francia Caterina de’ Medici sospetterà che ci siano ragioni feudali, e non dottrinali, nell’arresto: «Avanti la heredità” ( Gian Galezzo è rientrato in Italia per prendere possesso del feudo di Sanseverino, disputatogli da Giovan Battista Borromeo, marito della sua nipote Giulia Sanseverino) mai era stato «infamato né travagliato per cagione di religione». Caterina non ha completamente torto: il Borromeo aveva un potente protettore nel cugino cardinale e futuro santo Carlo Borromeo. Tanto che, quando nel 1577 Giovan Battista, che teneva la moglie Giulia murata in casa, nel calore di un alterco la trucidò a coltellate, il cardinale lo protesse e ne agevolò la fuga – la storia dell’uxoricidio occupa un’appassionante Appendice. La doppiavicenda illumina la grande e la piccola storia del «mondo litigioso e violento» dei grandi feudatari italiani che sedusse Stendhal; mentre nelle pieghe del processo e nelle sue intenzioni, grazie alla sottigliezza inesausta dell’analisi della Fragnito, rivivono le corti di Francia e del papato, le guerre di religione e le ragioni della politica e della geopolitica ( indurre la Francia alla «guerra col Turco» ) di quei tempi tempestosi, in cui, alla vigilia della notte di san Bartolomeo, molte delle future fratture dell’Europa non erano ancora definite.
Per le sue valorose imprese al servizio della corona di Francia proprio nelle guerre di religione contro i riformati ugonotti Gian Galeazzo era stato ricompensato con pingue donazioni; alla notizia dell’arresto Carlo IX e Caterina de’ Medici reagirono con veemenza. Ma il papa Pio V intendeva attraverso Sanseverino provare la connivenza di Caterina con “la setta” ugonotta, vedendo con sospetto la sua politica conciliatrice – almeno finché ebbe come consigliere Michel de l’Hospital, che mirava a una pax christiana nel regno.
Preziose per il quadro storico sono le fasi del processo. Tra i testimoni, il nipote Borromeo: e qui, suggestivo e pieno di risonanze contemporanee, si apre il tempestoso pranzo con delitto ricostruito nell’Appendice. Avviene l’8 marzo 1577; Giovan Battista Borromeo – il più bel giovane della città, come ricordava alla moglie Giulia Sanseverino il suo consigliere spirituale padre teatino e futuro santo Andrea Avellino: salvo poi dover denunciare al cardinal Borromeo il trattamento che il cugino riservava alla contessa, cui ha sbarrato tutte le porte della casa – è appena rientrato da Messa. Nella sontuosa sala da pranzo di Origgi, dove sono serviti da quaranta domestici, i coniugi vengono a diverbio. Giulia chiede al marito dei denari che le spettano; al suo rifiuto, lei dichiara: «Mi si seccasse la lingua, se ve li chiedo più». Imperversava la peste: è a pranzo il medico Giacomo Filippo Visconti, che galantemente dichiara che, essendo vedovo, non è in pericolo di contagio, a differenza del conte, che ha moglie, e assai bella. «In questo conto», sussurra la moglie, «non me tratta da moglie». «Parlate da bestia», s’irrita Giovan Battista, «le solite belle parole», ribatte Giulia; «ve insegnerò mi a rispondermi, che non voglio che me rispondete» – e per ridurla effettivamente al silenzio, la prende a pugni e la colpisce a terra col pugnale sotto il seno, cercando il cuore. Giulia riuscì due volte a alzarsi, e per due volte pugnalata alla schiena, sulla porta della sua camera fu finita; morì “immediatamente”. La ricostruzione come si vede particolareggiatissima è ripresa dalla Fragnito dall’ingiunzione del 15 marzo del Capitano di giustizia di Milano all’uxoricida a comparire per giustificarsi; ma non raggiunse Giovan Battista, che si diede alla fuga. Avrebbe rivolto contro sé stesso il ferro criminale, assicurava, ma se ne era astenuto «acciocché vivendo mòra mille volte», e per perfezionarsi nel pentimento. E avrebbe ottenuto la “remissione” (il perdono) di quel suo «eccesso così scellerato», senza il tenace, implacabile rifiuto della madre di Giulia, Lavinia Sanseverino, che col cuore “soffocato” dal dolore, mantenne vigile la riprovazione della giustizia civile contro il potere ecclesiastico (Carlo Borromeo si era insediato stabilmente a Milano dal 1566: e fu lui a favorire l’esilio dell’assassino nei Cantoni svizzeri), non consentì che il genero venisse graziato, si oppose al matrimonio delle figlie, che lui avrebbe mandate «al mazello» giovanissime a altri Borromeo – e solo alla sua morte la pena di Giovan Battista fu condonata. Ma nel 1575 è la morte (di cui non diremo) del Condottiere Gian Galeazzo – lo sterminatore degli ugonotti, eppur definito “eretico marcio” – a porre il sigillo a un’epoca di inimmaginabili rivolgimenti.