ItaliaOggi, 31 dicembre 2022
Le 245 cravatte di Antonino D’Anna
Sono grato a Roberto Giardina che, in una delle sue corrispondenze dalla Germania, mi tira in ballo con le mie 245 cravatte (quelle di maglia sono conteggiate a parte, queste sono le tradizionali) nel suo come sempre magnifico pezzo con il quale scopro piacevolmente come in Germania ci si tolga la cravatta in ufficio ma la si metta per andare al ristorante o alle feste. Questi tedeschi: bisogna prenderli così come sono, altrimenti uno ci fa nottata. Però devo dire la mia: scegliete la cravatta come vi pare ma, vi prego, rispettate l’unica regola sensata possibile per annodarvela al collo. La cravatta si indossa a tinta unita su camicie fantasia (a righe, pois, motivi geometrici o quello che volete voi) e si può portare a fantasia di ogni tipo su una camicia a tinta unita, bianca per l’eleganza assoluta e azzurra/celeste per un’eleganza un tono sotto. La camicia bianca, per capirci, era parte dell’uniforme per il servizio sul Settebello (antenato del Frecciarossa) negli anni 70: agli altri capitreno portavano la classica celestina. Non solo: l’Esercito italiano è l’unica forza armata al mondo che abbia combattuto una guerra mondiale (la Seconda) in giacca, cravatta e moschetto 91 a tracolla. Del resto, si sa, la cravatta è erede di quella sciarpa portata dai soldati croati che nel ’700 fece impazzire la corte di Luigi XIV, Re Sole. E prim’ancora i legionari romani si proteggevano la gola e il collo dal freddo e dal contatto con l’armatura con il focale, una sciarpa simile al cravattino odierno. In ogni caso no a contropale (il lato stretto) più lunghe delle pale (il lato largo), la lunghezza DEVE ad ogni costo toccare la fibbia della cintura dei pantaloni o il bottone che li chiude se portate le bretelle. Il resto è ’na cafonata: l’unica cravatta negligentemente elegante, sorda a ogni regola, comodamente anarchica è SOLO quella di maglia (in Inghilterra, peraltro, simbolo di distinzione per giornalisti e gentiluomini campagnoli). Non dimenticatelo MAI.
Ho sempre desiderato portare la cravatta: era il dress code di mio padre per andare in ufficio, all’Eni. Ricordo un pianto disperato e incazzato davanti allo specchio quando, a poco meno di cinque anni, mia madre osò mettermi un coso di tessuto rosso che mi legò con un fiocco al collo della camicia. Volevo la cravatta, io, come papà. L’anno dopo, per il matrimonio di mio cugino Pino, facemmo sul serio: papillon blu scuro su camicia bianca. E a 10 anni, per le Nozze d’argento di mia zia Santina, finalmente un vestito vero, verde, con una bella cravattina Paisley che non sapevo annodarmi (se l’annodava, molto lasca, mio padre e me la passava. Poi ho imparato).
Abbandonata la striscia di tessuto negli anni universitari, un bel giorno mi trovai ad entrare alla Società del Giardino, esclusivissimo ed elegantissimo club milanese. Dovevo intervistare Giuseppe De Carli, allora capostruttura Rai Vaticano: all’ingresso, il portiere mi bloccò, si entrava solo con la cravatta. Dovetti noleggiarla e appresi la lezione. Da allora ho sempre portato la cravatta, perché come insegnava il Duca di Windsor (al di là delle sue simpatie naziste, sia chiaro) un uomo ben vestito può andare ovunque. La indosso tra settembre e aprile poi, con i primi caldi, sparisce: in diretta alla radio, in giro per il giornale o in privato a casa, una cravatta è sempre al mio collo. Mi dà ordine mentale, è un modo per rispettare me stesso e le persone con cui vengo in contatto.
A volte la cravatta può essere utile per un’intervista: una volta, per ItaliaOggi, strappai un’intervista ad un tale con al collo una Marinella illustrata da sigari toscani (in America le chiamano conversational ties perché esprimono un lato amichevole del portatore facilitando il contatto con lui). D’estate la soffro in mancanza di aria condizionata, d’inverno tiene il collo caldo specie se si va in Vespa. Quest’anno non ho potuto raggiungere quota 400 in fatto di cravatte detenute, ma razzio di tutto: vintage anni ’70 in prevalenza, regali di chi se le trova e non sa che cosa farsene (anzi, se vi avanzano speditele pure a mio nome qui in redazione: Via M. Burigozzo 5 – 20122 Milano): ne ho due, bellissime, in Terital che fu il tessuto del boom economico. E poi le esibisco sulla mia pagina Facebook e Instagram, dove anche Giardina partecipa a commenti e votazioni (a volte possono essere suggerite da figlia, moglie, amici). E mi raccomando: se mettete una cravatta o camicia a fantasia, un colore almeno di uno dei due indumenti deve far paio con l’altro. Altrimenti andate sul sicuro: grigio su blu (o su nero), giallo/crema su marrone, bianco e azzurro jolly, libera scelta. Ah: piace a eventuali contatti ambosessi, secondo i vostri gusti. Come le cravatte, appunto.