La Stampa, 31 dicembre 2022
Intervista a Renato Pozzetto
«Tutto si modifica ma noi uomini, invecchiando, siamo sempre più legati a quello che è stato, a quello che abbiamo vissuto. A Natale questa cosa è ancora più forte. In questi giorni mi è tornato in mente l’abete che decoravo insieme ai miei fratelli, con le arance e i mandarini al posto delle luci, la tazza con il latte e i biscotti per Gesù bambino, il meccano, che era il mio regalo preferito, la mia mamma che ogni tanto durante l’anno lasciava qualche soldo in più al negozio di alimentari per poi ritrovarsi a dicembre con il cesto per il pranzo di Natale». Renato Pozzetto, 82 anni, eterno «ragazzo di campagna» della comicità italiana e saltimbanco – a lui piace definirsi così – del cabaret milanese, alterna riflessioni, ricordi e colpi di tosse («Mi sono beccato il Covid, c****»). Ha come sempre mille idee in testa: un nuovo spettacolo con l’inseparabile Cochi, la riscoperta di un antico vitigno, il “Liseiret”, che produrrà insieme al barolista Elio Altare e all’ex ministro della Salute Ferruccio Fazio, il progetto di portare in teatro la sua canzone Babbo Natale è un geometra accompagnato da un coro di voci bianche.
Da vero milanese lei non si ferma mai. Ma questo operosità non è un po’ una malattia?
«Non credo. Noi milanesi siamo fatti così. Fa parte del nostro Dna. Una volta gli operai si spostavano da una parte all’altra della città per lavorare, oggi ci dedichiamo alle grandi iniziative. Penso alla moda e al design, all’idea di correre nei cinque continenti per portare ovunque le nostre creazioni. Mi piacciono i milanesi e mi piace l’idea di una città abituata a modificarsi, a cercare di capire dove va il mondo e ad evolvere».
Qualche tempo fa aveva ipotizzato un sequel del «Ragazzo di campagna» con una mucca che avrebbe dovuto partorire un vitello in cima al Bosco verticale. Ci sta lavorando?
«Sono amico dell’architetto Stefano Boeri e l’idea mi stuzzica. Pochi giorni fa stavo parlando con un manager di Medusa e abbiamo fatto un po’ di conti: in poco meno di quarant’anni il Ragazzo di campagna ha fatto 100 milioni di ascolti. Ogni italiano, compresi neonati e centenari, l’ha visto più di una volta».
Dov’è nato il suo celeberrimo «Taaac»?
«C’era un amico che veniva al Derby e che frequentava le corse dei cavalli a San Siro. Era molto simpatico e incarnava appieno il tipo di umorismo che girava in quel mondo lì. Mentre raccontava di un cavallo che aveva vinto una gara, ad esempio, ti infilava un dito nella pancia o nell’orecchio, continuando a parlare come se nulla fosse e godendosi la tua reazione. Oppure ti schiacciava un piede. Il “taaac” è saltato fuori così, in modo naturale. Accadeva lo stesso da Gattullo, la pasticceria di porta Lodovica che frequentavo con Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Beppe Viola, Bruno Lauzi. Lì sono nate tante idee, come l’Ufficio Facce, perché si respirava un’ilarità speciale. Ci si guardava attorno e si annotavano atteggiamenti, espressioni, tic. Era una miniera».
Chi le piace fra i comici e i cantanti di oggi?
«Seguo poco. Non uso internet e nemmeno i social. I tempi sono cambiati e certe cose, come il rap, non le capisco proprio. Ma non intendo in senso negativo. Mi sembra come quando abbiamo debuttato io e Cochi. Sono stati i giovani ad aiutarci, perché gli adulti pensavano che fossimo degli stupidi. Non capivano un brano come La gallina. Anzi, spesso si incazzavano perché era molto lontano dalla musica leggera o dalle canzoni del Festival di Sanremo».
Cosa pensa dell’idea di abbattere San Siro per costruire un nuovo stadio?
«Non saprei, anche perché sebbene io sia milanista, e pure amico dell’ex presidente dell’Inter Massimo Moratti, ho frequentato pochissimo lo stadio. Ci andavo da bambino. Da adulto ho sempre avuto la sensazione che alla fine della partita tutti i tifosi, indipendentemente dal risultato della loro squadra, condividessero una certa tristezza. La tristezza della fine della domenica e della festa, la tristezza di chi il giorno dopo doveva andare a lavorare. Io, da privilegiato che ha sempre amato il proprio lavoro, allo stadio mi sentivo fuori posto».
Fra qualche settimana la «sua» Lombardia andrà a votare. Che idea si è fatto della sfida fra Attilio Fontana, Letizia Moratti e Pierfrancesco Majorino?
«Conosco bene Attilio Fontana perché prima che decidesse di buttarsi laboriosamente in politica è stato il mio avvocato. Oggi mi segue sua figlia, che è bravissima. Ma di politica non parlo. Fortunatamente nella vita ho avuto passioni diverse. La politica mi interessa, ma la guardo con un certo distacco. L’ho sempre detto anche a Umberto Bossi».
Conosce bene il Senatur?
«L’ho incontrato una volta in aereo rientrando da Roma, dove stavo girando un film. Non ci eravamo mai visti prima ma lui mi ha fermato e mi ha detto: mi sono trasferito a Gemonio, siamo diventati compaesani. I miei genitori, infatti, hanno sempre vissuto lì. Quando andavo in moto a trovarli mi capitava di incrociare Bossi che, a piedi, andava dal tabaccaio a comprare i toscani. Siamo diventati amici e ogni tanto suonavo il campanello della sua villetta e passavo a salutarlo. L’abitazione era modesta e lui stava sempre appollaiato vicino al camino. Mi incuriosiva il suo modo di intendere la politica e mi piaceva pensare che anche Silvio Berlusconi, per parlare con lui, doveva salire fin lì».