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 2022  dicembre 31 Sabato calendario

In morte di Tony Vaccaro

«Tony voleva raggiungere i 100 anni più di ogni altra cosa e ci è riuscito. Dopo il suo compleanno ci ha detto “adesso posso riposare"», hanno raccontato sui social Maria e Frank, i figli del grande fotografo Tony (all’anagrafe Michelantonio Celestino Onofrio) Vaccaro, morto a New York per i postumi di un’ulcera, sette giorni dopo aver raggiunto il traguardo di un secolo di vita. Un secolo pieno di avventure e scatti, di incontri con i grandi della Terra e del jetset, dal presidente Kennedy alle star di Hollywood, come Chaplin o Marlon Brando, senza dimenticare le stelle italiane come Sophia Loren, Federico Fellini, Anna Magnani e Vittorio De Sica, gli architetti come Frank Lloyd Wright o Le Corbusier, artisti come Picasso, Burri o De Chirico.
Ma altrettanta passione Vaccaro metteva nel ritrarre la gente comune come i contadini di Benafro, il paese del Molise da dove i genitori erano partiti per l’America e dove erano tornati nel 1925, quando aveva tre anni. A Benafro visse l’infanzia e l’adolescenza, ma all’inizio della Seconda guerra mondiale per sfuggire al regime fascista decise di tornare Oltreoceano: nel ’44 si arruolò nell’esercito americano come soldato «con il permesso di fotografare». Un permesso che sfruttò alla grande, realizzando migliaia di scatti in vari fronti e vari momenti della guerra. Partecipò allo sbarco in Normandia, come Robert Capa (raccontò di essere però diventato amico del fondatore della Magnum solo nel 1947, dopo aver mancato nel ’44 un incontro con lui alla battaglia di Saint Malo), seguì le truppe nella capitali europee, fotografò i voli alleati sulla Berlino assediata dai russi, raccontò l’euforia che percorse il Vecchio Continente dopo la sconfitta nel nazismo. Era diventato il reporter di Stars and stripes, il giornale dell’esercito americano: tornò spesso in Italia e in Molise e qui affinò la sua tecnica, puntando l’obiettivo sugli uomini che stavano ricostruendo il nostro Paese.
In guerra sviluppava i suoi scatti di notte come poteva, in modo quasi rocambolesco, aiutandosi con una coperta e usando gli elmetti come contenitori per i bagni chimici. Sviluppate le foto, ne faceva una grande bobina che portava nello zaino in un contenitore per pellicole cinematografiche che aveva recuperato tra i ruderi di un cinema.
Nel 1949 tornò in America per specializzarsi in giornalismo alla Long Island University. Protagonista di un’epoca d’oro del fotogiornalismo, i primi Anni 50 lo vedono collaborare con i più importanti rotocalchi d’Oltreoceano: Flair, Look, Time, Life. Fu anche corrispondente da Roma per Time-Life e, oltre a immortalare la Roma della Dolcevita, non mancò di entrare nelle segrete stanze del Vaticano. Tra gli Anni 50 e 60 iniziò a fare il globe trotter, inseguendo avvenimenti e curiosità in giro per il mondo, ma senza trascurare il suo primo amore, l’Italia.
Divenne fotografo di moda non per caso, ma per caparbietà: aveva sentito parlare di Fleur Cowles, mitica editor di Look e decise di mostrarle le sue immagini. Lei fu affascinata da alcune istantanee di guerra e gli chiese se sarebbe stato capace di fare fotografie di moda in quel modo. Lui non ne aveva idea, ma disse di sì. Così si ritrovò il giorno dopo a fotografare modelle sulla Quinta Strada.
Tra le sue serie più famose, diventate mostre negli Anni 80 e 90, ci sono Scatti di guerra e La Mia Italia. Il suo lavoro gli ha guadagnato riconoscimenti di ogni tipo, dalla medaglia d’Oro del World Press Photo alla Legion d’Onore francese, che gli fu consegnata nel 1994, da Mitterand, a 50 anni dal D-Day. In Italia fu celebrato a Roma, alle scuderie del Quirinale nel 2009, con una retrospettiva, mentre a Benafro c’è una mostra permanente di suoi lavori.
La lunga vita non gli ha risparmiato la pandemia e a 98 anni ha superato il Covid per ben due volte. In un’intervista per il blog fotografiamo.net, due anni fa, raccontava: «Ho scattato una foto ieri della gente nella mia strada con la mascherina. Per me è la documentazione del nostro tempo e luogo, non c’è alcuna differenza dal mio lavoro nella Seconda guerra mondiale. Si tratta di un tempo speciale. Ci chiediamo se il mondo tornerà alla normalità. Ci chiediamo cosa sarà normale. Non lo so, ma ho bisogno di documentare queste maschere per i cittadini del futuro. Spero un giorno di poter tornare a mangiare in un ristorante».
Alla domanda su cosa l’avesse spinto ad intraprendere la carriera di fotografo ha risposto: «Sono sempre stato in cerca delle bellezza: una ricerca delle cose per cui valga la pena di vivere. Si tratta di questo».—