la Repubblica, 31 dicembre 2022
Intervista a Toni Servillo
Un monologo intenso e un tour de force interpretativo, senza l’appoggio di scene o costumi. Solo l’attore, che però è quello incoronato tra i 25 migliori degli ultimi 20 anni dal New York Times, il volto del cinema italiano d’autore nel mondo e da 43 anni un “maestro” della scena. Toni Servillo torna a teatro e lo fa non con un grande classico come capita spesso ai divi, ma con un assolo teso e impegnativo. Dopo la serie di film straordinari con Martone, Sorrentino e Di Costanzo, dopo la superba prova in Esterno notte di Marco Bellocchio e in La stranezza di Andò, il titolo italiano più visto del 2022, in attesa di Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese in sala a gennaio, e Il ritorno di Casanova di Salvatores a marzo, l’attore e regista «accompagna il pubblico del teatro», e sono parole sue, «in una cerimonia in tre momenti con poeti e scrittori che sono un antidoto alla paralisi del pensiero». Tre modi per non morire. Baudelaire, Dante, i Greci dall’11 gennaio al Piccolo Teatro Studio, poi al Bellini di Napoli, entrambi coproduttori, è un progetto che nasce dalla lunga collaborazione con Giuseppe Montesano, lo scrittore divenuto in questi ultimi anni il drammaturgo di fiducia di Servillo e che qui ha scritto per lui tre testi, da gennaio raccolti in forma completa in un libro Bompiani. «Un lavoro che mi riguarda profondamente», dice Servillo. Cosa intende dire?«Da tempo mi chiedo cosa possa fare l’arte in questa epoca in cui si vive come disidradati nell’anima, per dirla con le parole di Montesano, sottomessi da un feudalesimo digitale dove i feudatari ci ordinano di cliccare, digitalizzare, smartizzare, cloudizzare, softerizzare… Con Giuseppe abbiamo sentito il bisogno di una riflessione su questi temi». Un rapporto di lunga data, il vostro. «Dagli esordi di Teatri Uniti negli anni Ottanta, poi con la relazione fondamentale nel 2016 per il mio spettacolo, Elvira, dagli scritti di Louis Jouvet che lui ha tradotto.Nel frattempo Giuseppe ha scritto libri importanti, Lettori selvaggi, Come diventare vivi … Libri nei quali si chiede cosa è rimasto dell’arte come nutrimento, con la cultura, invece, ridotta a intrattenimento. In Tre modi per non morire cerchiamo risposte negli scrittori del passato, là dove si era immaginato un altro modo di vivere: Baudelaire che parla di ribellione, Dante sugli ignavi, i greci sull’invenzione del teatro. Scrittori e poeti che raccontiamo senza l’ossequio celebrativo, solo un leggìo e lo spazio vuoto, perché sento di dover affrontare il teatro allontanandomi dai suoi aspetti di spettacolo». Perché? «Perché il teatro più che mai oggi o parla di vita, di morte, del nostro tempo, oppure è semplice spettacolo, magari ben confezionato, e a cui non nego un valore culturale, ma per me non è vivo. E lo dico con umiltà, non contro qualcuno. Già con Elvira di Jouvet, avevo partecipato il pubblico della stanchezza verso un genere di teatro, ora vado verso qualcosa di ancora più essenziale, semplicemente pronunciare le parole di Montesano che ci accompagnano nell’invenzione della vita, parole in cui credo, senza trucchi, finzioni per un viaggio col pubblico “per diventare vivi’”». Gli spettatori però vengono a vederla proprio perché lei recita e recita benissimo? «Intendiamoci, non è che faccio una conferenza. Pratico comunque il mestiere dell’attore. Però noi pensiamo che il teatro sia quello borghese, della rappresentazione, invece c’è un teatro che lo ha preceduto per secoli, dai greci ai Comici dell’Arte che ha a che fare con una fenomenologia di relazione con lo spettatore totalmente diversa, dove l’attore è più un esecutore, come Glenn Gould quando suonava Bach o Svjatoslav Richter Schubert. Ecco io vorrei ritrovare quella relazione primigenia, è Toni, oppresso da una cultura avvelenata, che non vuole stare zitto, e attraverso l’artigianato dell’attore e una parola “alta”, genera una sensibilità, una coscienza più attenta in chi ascolta». Facciamo un calcolo: sei film con Sorentino, sei con Martone, due con Bellocchio e poi Garrone, Andò e decine di interpretazioni memorabili al cinema. Cosa hanno a che vedere con questa idea radicale di teatro? «Il cinema per me è un lavoro di fiancheggiamento alle sfide di autori importanti. E ho pensato anche che potesse conquistare pubblico al teatro e lì sorprenderlo. Detto questo, mi interessa proprio la discontinuità tra cinema e teatro, anche se al cinema non ho mai fatto intrattenimento, pur avendo avuto molte offerte”». È stato difficile salire tutti i gradini del prestigio, del successo e restare fedeli a se stessi? «Non ho paura a dirlo: da uomo di teatro, ho riflettuto sul lavoro dell’attore e raccolgo le eredità di maestri come Brook e Grotowski, da cui ho imparato che il prestigio e il successo, non momentaneo, ci sono se l’attore genera un flusso con lo spettatore, un fuoco, che da lui parte, ma il pubblico alimenta».