Corriere della Sera, 31 dicembre 2022
Intervista a Franca Coin
Franceschina Mancino, alias Franca Coin, non ha rinunciato a portare il cognome del marito Piergiorgio, dal quale ha divorziato nel 2019, dopo 36 anni di matrimonio: «Ignoro se fosse previsto nella sentenza, non l’ho mai letta. Ma era ben felice che continuassi a usarlo. È sempre stato un uomo generosissimo. Avevo tutto su un vassoio d’oro». Nel 2000 c’era stato il rovinoso divorzio tra i due fratelli Coin, Vittorio e Piergiorgio, con il primo che estromette il secondo, presidente per 25 anni, dall’impero dell’abbigliamento fondato nel 1916 a Pianiga, nel Veneziano, da Vittorio Coin, venditore ambulante di merceria e tessuti. Era la prima rete italiana di distribuzione con i marchi Coin, Upim e Ovs e un totale di 883 fra grandi magazzini e negozi, da quello storico vicino al Ponte di Rialto a Venezia, oggi chiuso, agli otto piani di piazza Cinque Giornate a Milano, e giù per lo Stivale fino a Roma, Napoli, Taranto. Prima che nel 2017 morisse Vittorio, la Coin, quotata in Borsa, fatturava 1,2 miliardi di euro e aveva acquisito in Germania la catena Kaufhalle, poi ceduta.
La fine del matrimonio tra Franca e Piergiorgio ebbe sul bel mondo lagunare gli stessi effetti dell’acqua alta. Addio ai ricevimenti nella loro dimora di Palazzo Barbaro, sul Canal Grande, in cui soggiornarono i pittori Claude Monet e John Singer Sargent, il compositore Cole Porter e lo scrittore Henry James, che nel 1902 vi ambientò il romanzo Le ali della colomba: «Invitati celebri? E chi se li ricorda? Di sicuro Ted Kennedy, suo figlio Edward junior, quello cui fu amputata una gamba, ed Henry Kissinger». Addio alle loro case di Asolo e Cortina d’Ampezzo, quest’ultima venduta a Luca Cordero di Montezemolo. Addio a un sodalizio spirituale e commerciale: «Ero stata l’anima della comunicazione di Coin».
Dogaressa delle pubbliche relazioni.
«Nel 1970 inventai il lavoro che oggi voi giornalisti tanto disprezzate e ne feci un’arte. Sceglievo un creativo. Lo proponevo ai francesi di Vogue Homme e Vogue Sport. Sposavo pubblicità e articoli. A Parigi dicevano: “Tapis rouge pour madame Mancino”. Per forza, gli portavo Armani, Versace, Biagiotti, Missoni. Ho vissuto cinque vite, forse di più. Di sicuro una l’ho spesa per il made in Italy».
Cominciamo dalla prima.
«Nasco il 28 luglio 1938 a Trieste. Il mio nonno materno, Giuseppe Santoiemma, antifascista pugliese, vi era stato mandato al confino con la moglie e gli otto figli, un maschio e sette femmine, tutte avvenenti. Mio padre Francesco, maresciallo maggiore della Guardia di finanza a Fiume, uomo bellissimo, fece visita a questo gineceo. Era anche lui di Gioia del Colle, come il nonno, ma non si conoscevano. Papà vide Arcangela, s’innamorò e la sposò. Da lui imparai la disciplina e il rispetto per sé stessi e per gli altri. La mamma era più leggera, cantava e sognava. Dei tre figli, restiamo vivi io e Rocco. Filippo, il primogenito, è morto».
E la seconda vita?
«In Libia, dove mio padre fu trasferito: Bengasi, Apollonia, Tripoli. Al ritorno, girammo l’Italia. Infine a Fornovo, nel Parmense. La casa dava sul Taro. A me piaceva molto cucire i vestiti per le bambole. Mi nascondevo con Rocco sul pedale della Singer e chiudevo lo sportello di legno. Lì, stretti nel buio, bisbigliavamo: poveri, poveri. Poi uscivamo all’aperto urlando: ricchi, ricchi. Un giorno giunsero dall’Africa alcune coperte militari, che Filippo aveva “vidimato” per gioco con il timbro d’ufficio di mio padre. Mamma le tinse e ci fece i cappotti, così ruvidi e rigidi che, se fossimo svenuti per il freddo, saremmo rimasti in piedi lo stesso».
La terza vita?
«Papà mi disse: diplomati, decidi chi vuoi essere e mantieniti. Scelsi ragioneria. A 18 anni partii per la Londra dei Beatles e di Mary Quant. Ma senza minigonna: vivevo dalle suore. Prima di andarmene, mi rapai a zero. Non so perché: per sentirmi più libera, credo. Mi restò solo mezzo centimetro di capelli. Trovai posto nella sede diplomatica della Nigeria. Insegnavo il latino ai figli dell’ambasciatore. L’avevo studiato alle medie».
E siamo alla quarta vita.
«Dissi a mio padre che avrei voluto fare la hostess. Si rabbuiò. Non ebbi il coraggio di confessargli che ero stata assunta dall’Alitalia, avevo già la divisa di volo. Dopo pochi giorni fui convocata a Parma, alla Barilla. S’era messo di mezzo lui, evidentemente. Mi mandarono a Milano, alla Dieba, Dietetici Barilla, a tradurre dall’inglese testi sull’alimentazione».
Che noia.
«Infatti cambiai lavoro: assistente del presidente di un’azienda che costruiva pipeline, poi del presidente della Campbell’s soup, poi interprete per Condotte d’Acqua, sempre in viaggio: Persia, Nigeria, Sudafrica. Intanto mio fratello Rocco era venuto a Milano per studiare architettura. Vivevamo insieme. Si buttò sulla fotografia di moda. Trasformammo la cucina in camera oscura. E creammo Talents international, che scovava stilisti».
Immagino che nella sua quinta vita abbia fatto irruzione Piergiorgio Coin.
«Firenze, 4 luglio 1983. Ero lì a lanciare un progetto di moda per bambini legato a Snoopy. La licenziataria era Connie Boucher, una geniale fatina cui il fumettista Charles Schulz aveva affidato il merchandising della sua creatura. Mi mancava solo chi distribuisse i capi. Scelsi Coin. Piergiorgio venne a vedere la collezione e non acquistò niente. Dopo due mesi mi portò a vivere con sé a Venezia. “Ho comprato te”, scherzava. Però io non sono mai stata in vendita».
Quando vi sposaste?
«Lui era divorziato, con due figli, Marta e Marco, belli tosti. Li ho amati come fossero miei. Il matrimonio morale fu celebrato ad Anacapri dal proprietario del Palace hotel, un amico. Anni dopo lo regolarizzammo davanti a Paolo Pillitteri, sindaco di Milano. Una formalità».
Perché è finito?
«Eeeh, perché è finito... Perché siamo deboli, perché diamo retta agli adulatori, perché i collaboratori domestici amavano più me che mio marito. Perso il potere finanziario, Piergiorgio smarrì anche la fiducia in sé stesso. Ma non nutro rancori. I soldi non sono riusciti a schiavizzarmi. Stavo male, non camminavo più. Nonostante l’età, ne sono uscita. Detesto la parola “divorziata”. Guardi qua, porto ancora al dito la fede nuziale».
Lo ha più rivisto?
«Sì, l’ultima volta davanti all’edicola in Campo Santo Stefano. Ero con lo scrittore Vito Mancuso e la moglie. Lui stava per tirare dritto. L’ho fermato, l’ho salutato e gli ho presentato i miei amici».
E che cosa prova quando lo incontra?
«El me fa de pecà». (Mi fa pena, ndr).
In giro si dice che vi siete lasciati male.
«Si è arrabbiato perché ho venduto a Luca Cordero di Montezemolo la villa di Cortina. Ma l’avevo trovata io ed era intestata a me. Avrei dovuto farlo molto tempo prima. Ci ho rimesso. L’ho considerata il mio Tfr dopo 40 anni di lavoro per Coin. Di che altro avrei dovuto vivere?».
Le chiacchiere l’hanno fatta soffrire?
«No, perché per due anni non ho più rimesso piede a Venezia. Meglio Parma».
Beh, non avendo più casa a Venezia...
«Si sbaglia. La mia amica Elizabeth Royer, gallerista, mi ospita nel suo appartamento a Palazzo Barbaro. Certo, non è il piano nobile di 900 metri quadrati, con tre salotti, dove abitavo e dove un tempo Andrea Palladio veniva a progettare le sue ville venete. Fui io che feci acquistare a mio marito lo storico edificio».
E adesso?
«Festina lente. Mi occupo della lentezza. Dopo un quarto di secolo ho ceduto la guida di The Venice international foundation a Luca Bombassei, figlio del patron di Brembo. Resto presidente onoraria. Sono anche presidente di Friends of Venice Italy, che ho fondato 10 anni fa. Ha sede a New York. Ho coinvolto le maggiori fondazioni, da Pinault a Prada. Sto ancora inseguendo Bill Gates».
Ha gestito oltre 7 milioni di euro.
«Anche di più. Ho rubato al mio amico Muhammad Yunus, economista bengalese, premio Nobel per la pace, l’idea del microcredito. Ho inventato il micromecenatismo. Chi dava 100, chi 10, chi 5. Per restaurare le dorature nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale ho venduto 1.400 metri quadrati virtuali di soffitto. E sa chi ne ha comprati di più? I bambini di una scuola. Un euro a testa. Ora una porzione appartiene a loro».
Lei è un caso davvero unico.
«Non dica così. Ho solo cercato di suscitare l’emulazione. Dopo una visita a casa mia, la torinese Adele Rebaudengo ha creato Venice gardens foundation e restaurato i Giardini reali di San Marco».
Intanto il Palazzo Pisani Moretta se lo sono aggiudicato all’asta i cinesi.
«Non rimane più niente di veneziano a Venezia. Solo l’amore del mondo. Un’idea di sogno che ci salverà».
Quindi non pensa che la città affondi.
«Portai ad Al Gore i documenti per salvarla. Oggi il Mose funziona. Lei avrebbe mai detto che Ischia si sarebbe sciolta? Ha ragione l’ex sindaco Massimo Cacciari: non si può sempre dire “no” a tutto».
Andava alla Coin prima di sposarsi?
«Per me era un riferimento nella toponomastica cittadina: “Sai dove c’è Coin? Ecco, lì vicino”. Mai stata cliente di nessuno. Dipendo solo da ciò che mi emoziona, che sia griffato H&M o Chanel».
Il giorno più bello della sua vita?
«Quello in cui incontrai il mio unico marito. Era bello, acuto, visionario».
Pensa mai alla morte?
«Con tenerezza. Ho già deciso che cosa voglio».
Essere sepolta sull’isola di San Michele, come Ezra Pound e Igor Stravinsky?
«No, finire in cenere nelle acque della laguna. In fondo al mare della mia Venezia, insieme con l’anello di fidanzamento. Però sono ancora indecisa: laggiù ho paura di avere freddo».