Corriere della Sera, 31 dicembre 2022
Le tasse di trump
NEW YORK Dopo un lungo braccio di ferro arrivato fino alla Corte suprema tra Donald Trump e la Commissione di sorveglianza della Camera, 6.000 pagine di dichiarazioni fiscali dell’ex presidente e della moglie Melania dal 2015 al 2020 che erano state consegnate ai deputati la scorsa settimana sono state divulgate ieri. Dal Watergate, Trump era il primo presidente a tenerle segrete. I documenti mostrano che, dichiarando perdite milionarie, in quei sei anni Trump pagò 750 dollari di tasse sia nel 2016 che nel 2017, 1,1 milioni nel 2018-2019 e zero tributi nel 2020. Uno scoop del New York Times nel 2018 rivelò che Trump aveva pagato zero tributi in 10 dei 15 anni precedenti. Nel suo piccolo Melania ha dichiarato guadagni di 3.848 dollari come modella nel 2019 e 2020 ma spese per 3.848 dollari e quindi si è ritrovata a zero di reddito netto. Il tycoon, che spesso si è vantato della propria furbizia con il fisco, ha usato ogni metodo legale per pagare il meno possibile, ma gli esperti hanno individuato 26 casi sospetti in quei sei anni, per i quali potrebbe essere accusato di frode fiscale. Ci sono voci e numeri, come gli interessi ottenuti da Trump per prestiti ai propri figli oppure cifre spese esattamente corrispondenti alle entrate che avrebbero dovuto essere controllati. La Commissione «Ways and Means» non dice di avere le prove che Trump dovesse pagare di più, ma che in quanto presidente in carica per legge avrebbe dovuto ricevere un «auditing» dall’IRS, l’Agenzia tributaria che invece per i suoi primi due anni alla Casa Bianca non l’ha fatto, iniziando solo nel 2019 – quando la Camera si è interessata al caso – e senza mai concludere l’esame dei documenti. L’IRS era guidata da Charles Rettig, un avvocato tributarista nominato da Trump.
Un altro aspetto che i giornalisti erano ansiosi di valutare sono i conti all’estero. Le pagine divulgate ieri mostrano che l’ex presidente aveva conti correnti all’estero per tutta la durata del suo mandato: nel 2016 nel Regno Unito, in Irlanda, in Cina e St. Martin, nel 2017 nel Regno Unito, in Irlanda e Cina, e poi negli ultimi due anni solo nel Regno Unito. E ha guadagnato milioni da una dozzina di Paesi, inclusi Azerbaigian, Panama, India, Qatar, Emirati, Turchia spesso grazie a licenze per usare il marchio «Trump». Il New York Times nel 2020 rivelò il conto in banca di Trump in Cina (connesso – replicò l’avvocato – allo sviluppo dei suoi hotel) e scrisse che aveva versato tra il 2013 e il 2015 200mila dollari in tasse a Pechino (più che in patria), anche se accusava Joe Biden di svendere il Paese alla Repubblica popolare e Hunter Biden per gli affari in Ucraina e in Cina. I documenti divulgati ieri mostrano che Trump ha mantenuto il conto in Cina per i primi due anni del suo mandato e che nel primo anno ha pagato più in tasse all’estero che federali: 750 dollari in patria e quasi un milione di dollari in altri Paesi (usando queste ultime l’anno dopo per ottenere deduzioni).
Il dossier mostra tra le altre cose che, benché Trump da candidato avesse promesso di donare l’intero salario presidenziale di 400mila dollari per scopi caritatevoli, l’entità dei finanziamenti variò negli anni e fu pari a zero nel 2020.
Il tycoon ha definito la pubblicazione delle sue tasse un grosso errore della «sinistra radicale» e della Corte suprema. «Succederanno cose orribili a tanti», afferma in una nota, aggiungendo che trasformare «ogni cosa in un’arma politica» accentuerà le divisioni e concludendo: «Ancora una volta emerge quanto ho avuto successo nell’usare l’ammortamento e altre deduzioni fiscali come incentivo per creare migliaia di posti di lavoro e magnifiche strutture e imprese».