il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2022
Appunti sul presidenzialismo
Tra le numerose storture del dibattito pubblico italiano, quella sul presidenzialismo è una delle più clamorose. Presidenzialismo, a rigore, indica la forma di governo in cui il presidente (titolare del potere esecutivo) e il Parlamento (titolare del potere legislativo) sono entrambi eletti dal corpo elettorale in votazioni separate, e separati rimangono nelle dinamiche del loro successivo funzionamento.
Il Presidente non può essere sfiduciato prima dello scadere del suo mandato, così come il Parlamento non può essere sciolto anticipatamente: sicché, qualora i due organi siano espressione di maggioranze politiche diverse, essi sono costretti alla coabitazione e, conseguentemente, al compromesso. La storia degli Stati Uniti contemporanei è ricchissima di situazioni di questo tipo, sino all’estremo del Congresso che, per piegare la volontà presidenziale, rifiuta di approvare il bilancio annuale dello Stato, costringendo il presidente a “spegnere” l’apparato amministrativo da lui dipendente, dal momento che persino l’esercizio provvisorio sarebbe in quel sistema considerato un’inaccettabile violazione della separazione dei poteri. Tutt’altro il significato attribuito al presidenzialismo alle nostre longitudini.
Il presidenzialismo perseguito, sia pure in forme diverse, già da De Mita, D’Alema, Berlusconi e Renzi, ben prima che da Meloni, affonda le proprie radici nella “grande riforma” vagheggiata da Craxi sin dalla metà degli anni Settanta. Un progetto, quello craxiano, segnato in origine dall’illusione di risolvere un problema politico – la crisi di visione politica dei partiti e, per conseguenza, del parlamentarismo rappresentativo – a mezzo di artifici tecnico-giuridici, quali la manipolazione della legislazione elettorale (poi realizzata nel 1993) e la riconfigurazione verticistica della forma di governo. Un progetto basato sull’ambigua categoria della “governabilità”, volto non a separare, ma indissolubilmente a legare per la durata della legislatura presidente e Parlamento sotto il dominio del primo, in uno schema iper-presidenziale che assume oggi una connotazione particolarmente straniante, se solo si ha il coraggio di guardare con onestà intellettuale al concreto funzionamento del presidenzialismo in società attraversate da linee di frattura radicali (come gli Stati Uniti d’America, giunti a un passo dal golpe trumpiano) o strutturalmente plurali (come la Francia, dove la conquista della Presidenza non assicura più il controllo della maggioranza parlamentare).
Il rischio, nella peggiore delle ipotesi, è quello di ritrovarci nelle condizioni dei tanti Paesi sudamericani in cui la stabilità anelata attraverso il presidenzialismo è vanificata dalle dinamiche del multipartitismo esasperato; nella migliore, di dar vita a un sistema in cui non soltanto l’opposizione sarà condannata all’irrilevanza – più di quanto già non lo sia oggi – ma la stessa maggioranza non avrà alcun ruolo che quello di passiva ratifica delle decisioni assunte dal Capo.
Quel che, di fatto, già accade nelle Regioni e nei Comuni, non a caso presi a modello da chi, evidentemente ignaro di cosa significhi esercitare il potere legislativo in nome della rappresentanza nazionale, straparla di “Sindaco d’Italia”.
A fronte di tali pericoli, essenziale è riconoscere che la democrazia è discussione, non decisione, e che limitarsi a mettere in palio ogni cinque anni un potere autocratico, perché privo di reali contrappesi, equivale ad affiliarsi al club delle democrature (o dittocrazie). Per di più, con il risultato di gettare alle ortiche il solo punto di incerto equilibrio che rimane al traballante sistema istituzionale italiano: la Presidenza della Repubblica, attualmente configurata in modo tale da non essere diretta espressione della contesa politica quotidiana (pur essendo, sul piano pratico, spesso disponibile a farvisi coinvolgere) e che, proprio per questo, può ancora essere percepita come rappresentante dell’unità nazionale.
L’unità nazionale: vale a dire – come ha ricordato Gustavo Zagrebelsky – un qualcosa che, di per sé, non esiste, ma che è essenziale sia “costruita giorno per giorno, interpretando concretamente il patto che sta alla base del nostro stare insieme”, in modo da “stare al di sopra non solo delle beghe, delle manovre, delle pressioni e dei ricatti di cui è fatta molto spesso la politica d’ogni giorno, ma anche delle strategie partitiche dei giorni a venire”. Un’unità, peraltro, sempre più messa a repentaglio dall’azione dei governi degli ultimi decenni volta a sgretolare la tenuta della coesione sociale (incluso l’esecutivo odierno, che pure, ipocritamente, mentre approfondisce le contrapposizioni sociali, s’appella di continuo alla “nazione”). Insomma, il rischio è che, trascinato nell’agone politico, il presidente della Repubblica sia di fatto messo nell’impossibilità di assolvere il suo compito essenziale: rendere presente quella cosa che non c’è, ma deve necessariamente esserci, che è l’unità nazionale; senza la quale quanto rimane del, pur gravemente sfilacciato, nostro “stare insieme” sarebbe destinato a venire del tutto meno. Un’ipotesi che si fa ancora più inquietante considerando che ad accompagnare il presidenzialismo bramato da Fratelli d’Italia dovrebbe essere l’autonomia regionale differenziata voluta dalla Lega e dal Partito democratico: un progetto a sua volta destinato a minare proprio le basi dell’unità della Repubblica. È davvero il caso di mettersi a giocare così sconsideratamente con il fuoco?