Corriere della Sera, 29 dicembre 2022
Pasolini e Calvino: gli sconfitti
Da che mondo è mondo (si fa per dire), ci sono i pasoliniani e ci sono i calviniani. Come se tra i due «partiti» non ci fosse possibilità di dialogo. Semplificando molto, Pasolini significa immersione del corpo nella lotta, Calvino incarna l’osservazione del mondo (da fuori); Pasolini è passione tragica, Calvino è ragione illuminista con una componente anche giocosa; Pasolini è espressività esorbitante, Calvino è rigore dello stile. Ora che si è chiuso l’anno di Pasolini, si apre il centenario di Italo Calvino. Erano due modi di pensare la letteratura e due modi di pensare la vita: per gli approssimativi, erano l’uno l’imprudenza della passione, l’altro la prudenza del raziocinio. Anni fa, la studiosa Carla Benedetti mise in netta opposizione i due punti di vista in un libro intitolato Pasolini contro Calvino, dove schierandosi dalla parte del primo, scrittore «impuro», accusava il secondo di essere «integrato nell’istituzione letteraria». Si tratta comunque, e questo nessuno può negarlo, di due dei maggiori intellettuali (oltre che scrittori) del nostro tempo (se ancora il secondo Novecento si può ritenere a noi contemporaneo). Polemizzarono più volte tra loro. In un’intervista del 1974, Calvino disse di non condividere il «rimpianto di Pasolini per la sua Italietta contadina», che aveva aspetti detestabili. Per Pasolini l’Italietta era quella piccolo-borghese ed eternamente fascista del boom economico e del consumo omologante. Se Pasolini lo fu in termini più eclatanti, anche Calvino è stato un critico della modernità: quello che forse è il suo capolavoro, Le città invisibili, oppone al sogno di un equilibrio nella convivenza umana la vischiosità e il disordine prefigurando il collasso della società urbana. Come Pasolini, anche Calvino è stato molto letto rimanendo molto inascoltato. Aveva ragione Alberto Asor Rosa nel definirli due grandi sconfitti. Celebrarli è celebrare una sconfitta comune.