Corriere della Sera, 29 dicembre 2022
Intervista a Francesca Vecchioni
«A dire la verità non avevo nessuna intenzione di fare coming out con mio padre, perché avevo paura della sua reazione. È stato lui che è venuto a chiedermi». Francesca Vecchioni, 47 anni, figlia del cantautore Roberto Vecchioni e presidente della Fondazione Diversity – no profit che promuove la cultura dell’inclusione nei media, nelle aziende e nella società – ricorda così il giorno in cui ha detto a suo padre di essere lesbica.
Come è successo?
«Era maggio, io ero appena uscita dall’adolescenza. Mi chiese se frequentavo qualcuno: mi rovesciai addosso il succo che stavo bevendo. Fino ad allora non avevo detto nulla della mia vita sentimentale: non volevo mentire e quindi omettevo».
Cosa rispose?
«Che era complicato. Si allarmò subito: “Perché non me lo vuoi dire, cosa c’è che non va? È un drogato, un poco di buono?! Non sarà mica in galera, vero?”. Era troppo, non potevo non dirglielo: “È che non sto con un uomo, papà, sto con una donna!”. Rimase un attimo in silenzio. Poi mi disse: “Ma vaff... mi hai fatto spaventare... Non sapevo più cosa pensare! Ma non me lo potevi dire subito?!».
Era preoccupata che non la accettasse?
«Si ha sempre paura di fare coming out: dipende dalle aspettative che credi che i tuoi genitori abbiano su di te. Ma le aspettative sono plasmate dalla società e quindi siamo noi stessi responsabili di questa cosa: la politica, i media e ognuno di noi. Era così anche trent’anni fa: oggi dovrebbe essere diverso, anche se purtroppo ci sono molti casi in cui fare coming out con i genitori significa trovarsi di fronte a un muro insormontabile. Adesso che sono madre ho capito ancora di più l’importanza di quelle domande. E della reazione di mio padre e di mia madre: anche lei è stata subito accogliente».
Perché sono importanti?
«So che un genitore non può realizzare appieno il rapporto con i propri figli se non lo rende autentico. Nessuno può star bene con un padre o una madre che non lo ama per quello che è. E i genitori che non hanno la capacità di comprendere com’è il loro figlio o la loro figlia rischiano di perderli. Anche perché nessuno diventa gay o trans per le influenze esterne, come qualcuno ancora pensa: non lo scegli come non scegli il colore della pelle».
Lei ha avuto due gemelle, che adesso hanno dieci anni, con la sua ex compagna Alessandra Brogno: avete mai subito discriminazioni?
«No. Tutti, dai vicini di casa ai genitori dei compagni di scuola delle bambine sono sempre stati aperti. La società è più avanti della politica».
Poi vi siete separate, come succede a molte coppie: questo vi ha creato problemi a livello burocratico?
«Abbiamo avuto la fortuna di essere residenti nel comune di Milano, con figlie nate nel comune di Milano: ci ha riconosciuto il sindaco, un processo immediato che ci ha permesso di evitare i lunghi ricorsi in tribunali per l’adozione in casi particolari. E l’assurdità che Alessandra dovesse “adottare” le sue figlie, magari dopo anni di attesa e incertezza. Nella maggior parte delle città non è così».
A proposito di madri: la ministra della Famiglia Eugenia Roccella ha detto che non modificherà il decreto Salvini del 2018 che ha imposto di scrivere «madre» e «padre» sulle carte di identità dei minori nonostante una sentenza del Tribunale di Roma che ne ha sancito l’illegittimità. E nonostante il parere del Garante per la Privacy secondo cui questa dicitura potrebbe limitare i diritti dei figli delle coppie dello stesso sesso.
«Sono andata a rivedere la mia prima carta di identità, rilasciata più di quarant’anni fa: c’era scritto “genitori o chi ne fa le veci”. Poi sono andata a vedere la carta di identità delle mie figlie, che sono nate nel 2012, e anche lì c’era scritto “genitore o chi ne fa le veci”. Prima del decreto Salvini nessuno riteneva un problema non avere “madre” e “padre” sui documenti. E non per via delle famiglie omogenitoriali, ma perché il concetto di genitore è inclusivo. Riconosce tutte le famiglie: quelle etero, quelle omogenitoriali, quelle in cui c’è un solo genitore o genitori affidatari».
La ministra dice che chi vuole la dicitura genitore può fare ricorso.
«Mi preoccupa che un ministro spinga i cittadini a rivolgersi ai giudici. Intanto perché costringe i tribunali, già intasati, a intervenire a spese dei contribuenti per far riconoscere un diritto che i bambini e le bambine dovrebbero già avere acquisito nel momento in cui sono stati riconosciuti. E poi perché così mette in conto l’esistenza di bambini di serie A e di serie B: crea una difformità di diritti e tutele tra quelli che hanno bisogno del tribunale per avere la carta di identità scritta correttamente e quelli che ce l’hanno subito».