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 2022  dicembre 29 Giovedì calendario

Chi sono i burocrati che comandano nei ministeri

Ci hanno provato tutti, dal primo all’ultimo. E tutti, chi più chi meno, sono stati costretti al dietrofront. Capi di gabinetto, dirigenti ministeriali, soprintendenti. Chi tocca il partito dello Stato lo fa a suo rischio e pericolo. Quattro mesi nella stanza dei bottoni sono bastati al governo Meloni per realizzare che non tutti i bottoni che contano sono in quella stanza. «Fermiamo la burocrazia dei no», è l’appello del ministro della Difesa Guido Crosetto affidato a questo giornale. Non è un assolo, ma un coro. «La cattiva burocrazia è spesso un freno allo sviluppo del Paese», si sfoga Paolo Zangrillo, ministro a capo del dicastero che sulla materia ha più voce in capitolo, la Pubblica amministrazione. Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture, punta il dito contro «una burocrazia che è troppo lenta, tra autorizzazioni e ricorsi». Perfino il mite Giancarlo Giorgetti, reduce dalla maratona notturna della legge di bilancio, anche se in pubblico difende i tecnici («Ma no, sono stanchi anche loro..»), viene raccontato come «sfiancato» dai continui rimpalli della Ragioneria che hanno rallentato, talvolta riscritto, la manovra.

DAL MEF ALLA CULTURA
Politica e burocrazia, questione antica. Dirigenti pubblici che dovrebbero attuare l’indirizzo politico. E invece finiscono per contrapporne uno proprio, in uno stallo che rallenta, annacqua, rimanda i provvedimenti. Se ne era accorto con amaro realismo, all’alba della Repubblica, il padre dei liberali Luigi Einaudi: finisce sempre che il ministro, per quanto bravo sia, «deve fidarsi di qualche funzionario, o competente, il quale dica cosa deve fare». Settant’anni dopo la storia si ripete, anzi continua indisturbata. I mandarini decidono, i politici spesso accettano con stanca rassegnazione. Eppure dovrebbe essere il contrario.Il Mef è solo uno dei tanti casi di scuola. Al confronto della portaerei di via XX Settembre, Palazzo Chigi sembra una piccola nave corsara. Sulla programmazione economica la squadra di tecnici più vicina al premier non ha l’ultima parola. Di qui il Cipe: due piani a via della Mercede. Di lì il ministero che ospita uno dei veri gangli del potere repubblicano: la Ragioneria generale dello Stato. Due chilometri in linea d’aria sono sufficienti a garantire una specialissima autonomia. Il potere, si sa, è prossimità. Un esempio? La legge di bilancio. Alla Ragioneria spetta il verdetto finale sulla quadratura dei conti. A Palazzo Chigi l’onere di passare in rassegna una lunga trafila di fogli excel colorati con l’allocazione delle risorse, scritta a caratteri microscopici. Di solito – è questo il caso – il rapporto fiduciario tra premier e ministro aiuta a oliare la macchina, allenta eventuali tensioni. Ma l’iper-autonomia di chi fa i conti al Mef è da tempo oggetto di dibattito. Il braccio di ferro tra governo e Ragioneria, per dire, fu tra le cause della caduta del primo governo Moro e dell’allontanamento del suo ministro del bilancio socialista, Antonio Giolitti. Oggi il nodo torna attuale, ad esempio, per l’attuazione del Pnrr. Non a caso il ministro Raffaele Fitto, nel decreto-ministeri, ha ottenuto che si specificasse che «il Servizio centrale per il Pnrr» – l’organo della Ragioneria guidato da Carmine di Nuzzo – «opera a supporto dell’Autorità politica delegata». Scripta manent.Altre volte, e qui la faccenda è più seria, il protagonismo della burocrazia prende un’altra forma: una lunga, interminabile, serie di veti. Bastano due parole per calare un’ombra sul volto di un ministro: «Vincolo paesaggistico». È la spada di Damocle che dal ministero dei Beni Culturali pende su qualsiasi progetto in odore di alterare l’armonia di un panorama o l’integrità di un patrimonio artistico (vero o presunto). Ne sanno qualcosa i ministri dell’Ambiente che negli ultimi anni hanno invano cercato di dare una spinta alle energie rinnovabili, dall’eolico ai pannelli solari. Passa il tempo, poco o nulla si muove. Solo l’1% dei progetti legati al Pnrr a inizio autunno aveva superato il vaglio dei soprintendenti. Rieccola, la burocrazia dei no, la politica nelle sabbie mobili.

UNA STORIA ANTICA
È un vecchio problema, si diceva, a cui tanti hanno provato a porre rimedio. Dalla legge Bassanini che ha introdotto lo spoil system per i dirigenti di prima fascia della PA alle tante riforme succedutesi, da Brunetta fino alla legge Madia del governo Renzi, nato con l’auspicio di potare «l’albero mortifero della burocrazia». Così come non c’è governo, nell’ultimo quarto di secolo, che non abbia promesso di «premiare il merito» nella selezione della classe dirigente della PA italiana. Una classe però spesso incline all’auto-assoluzione. Nel 2012 un’indagine dell’Anac dimostrò che tutti i dirigenti di prima fascia avevano ottenuto nelle rispettive PA una valutazione della performance non inferiore al 90%. Bocciati: nessuno. «Si è arrivati al paradosso di dirigenti pubblici che si promuovono a pieni voti e sulla base di questa promozione ottengono bonus economici nota Lorenzo Castellani, professore alla Luiss e autore de «L’ingranaggio del potere» (Liberi libri) e c’è una burocrazia auto-referenziale che tende a usare lo schermo del diritto per tutelarsi». Così è, anche se non vi pare.