La Stampa, 28 dicembre 2022
Ritratto di Rita Levi-Montalcini a 10 anni dalla morte
Racconta un biografo che Albert Einstein, da adolescente, «sognava di cavalcare un raggio di luce». Sogno che in seguito lo scienziato avrebbe concretizzato nella famosa formula della Relatività. Ignoro se questo sogno fosse l’immaginazione del biografo o una reale confessione del grande scienziato. Ma fornisce un esempio incommensurabile di uno scienziato visionario. Rita Levi-Montalcini, a mio avviso, faceva parte, con le ovvie differenze, di questa privilegiata categoria di esseri umani che da adulti seguono e spesso realizzano il loro sogno. Prerogativa di un visionario è di cambiare o addirittura di rompere uno stato di conoscenze talvolta considerato definitivo.
L’Accademia delle Scienze Svedese assegnò il Nobel alla Levi-Montalcini e Stanley Cohen perché portarono alla luce l’esistenza di una nuova categoria di sostanze denominate fattori di crescita. Il primo dei quali fu il fattore di crescita delle fibre nervose o «NGF». La scoperta del «NGF» costituì, a mio avviso, una rottura nel campo dell’embriologia che studiava o elaborava ipotesi sul meccanismo tramite il quale le fibre nervose crescono e si dirigono verso gli organi bersaglio. Grazie ad un esperimento frutto di intuizione e geniale esecuzione nella sua semplicità, condotto alla Waschington University di Saint Louis dove si era recata su invito di Wiktor Hamburger, Rita dimostrò che le fibre nervose non crescono in base alla dimensione del territorio che debbono innervare – come ipotizzava il suo collega – ma per effetto di una sostanza diffusibile che fu denominata «Nerve Growth Promoting Factor». La nascita di questo fattore venne sancita nel 1951 con la pubblicazione dell’esperimento e rappresentò una rivoluzione nel campo della neurobiologia che studia i meccanismi che presiedono alla formazione delle reti nervose.
Nel 1953 e nel 1960 Rita compì, in larga parte insieme con Stanley Cohen, altri due esperimenti che segnarono le tre tappe fondamentali per l’assegnazione del Nobel nel 1986. Sempre da visionaria, o da «cane da tartufo» come lei modestamente si definiva nelle lettere alla madre ed alla sorella gemella Paola, si recò a Rio De Janeiro dall’ amica e collega Hertha Mayer, conosciuta a Torino ai tempi del «burbero» maestro Giuseppe Levi, per mettere a punto un test che permettesse di valutare in modo quantitativo e rapido – rispetto a quello che aveva condotto alla scoperta del «NGF» – la presenza e la quantità di «NGF». Di ritorno a Saint Louis poco dopo la messa a punto del test, accadde ai due scienziati un colpo di fortuna insperato e benedetto. Grandissime quantità di «NGF» si trovavano nel veleno di serpenti ed ancor più nelle ghiandole salivari dei topi. Ancor oggi non si conosce il significato biologico di queste quantità di «NGF» in due fluidi destinati alla secrezione esogena. Sta di fatto che grazie a questa disponibilità di «NGF», Cohen fu in grado di preparare un anticorpo diretto contro il «NGF» e i due scienziati dimostrarono che, iniettandolo in ratti neonati, si distruggeva quasi completamente il sistema nervoso simpatico. Il fenomeno fu denominato immunosimpatectomia e fu la dimostrazione inequivocabile che il «NGF» svolgeva un ruolo cruciale per la sopravvivenza di questo sistema nervoso periferico.
Era il 1960 e la notorietà acquisita da Rita indusse nel 1962 il presidente del Cnr Vincenzo Caglioti ad invitarla a Roma per creare un Centro di Neurobiologia. Nel centro fui assunto da giovane laureato in medicina, ma con una buona conoscenza di biochimica formata nell’istituto di Chimica Biologica dell’Università di Genova. Il mio compito consisteva nello studio del meccanismo con il quale il «NGF» induceva la crescita delle fibre nervose. Dovevano ancora trascorrere 21 anni prima dell’assegnazione a Rita Levi-Montalcini del Nobel e prima di allora il piccolo gruppo di ricerca del Centro diretto da Pietro Angeletti condusse numerosi esperimenti che estesero il ruolo funzionale del «NGF» a livello dell’intero organismo.
Prima e dopo allora ho avuto numerose volte l’occasione di assistere alla concezione visionaria di Rita, anche fuori dal contesto scientifico. Insieme con la sorella Paola fondò un’associazione per l’orientamento scolastico dei giovani, creò una fondazione per l’assegnazione di borse di studio a giovani donne africane affinchè potessero continuare i loro studi nel loro Paese di origine. Infine, realizzò il suo sogno, coltivato dal suo rientro in Italia, di fondare lo European Brain Research Institute (Ebri), che volle che presiedessi come co-fondatore ed alla cui presidenza mi è succeduto il collega e amico Antonino Cattaneo. Nel ricordarla a distanza di 10 anni dalla scomparsa, confesso un solo grande rimpianto: che Rita non abbia potuto assistere e seguire il lavoro sperimentale condotto dal mio gruppo di ricerca al quale afferiva Nadia Canu, prematuramente mancata, e Giuseppina Amadoro, coadiuvata da Valentina Latina. Con il loro lavoro sperimentale si è prodotto un anticorpo monoclonale per la diagnosi e la cura del morbo di Alzheimer. L’anticorpo è estremamente specifico e migliora significativamente la memoria di modelli sperimentali di topi che soffrono di questa malattia. Nel prossimo anno inizieremo gli esperimenti per l’impiego dell’ anticorpo nel uomo, sperando di continuare il sogno visionario di Rita. —