Corriere della Sera, 28 dicembre 2022
Intervista a Liliana Cavani
«Ma bisogna proprio parlarne?» La voce gentile di Liliana Cavani si fa un po’ risentita. Questa storia dei 90 anni non le va giù. Il 12 gennaio la grande signora del cinema italiano, apprezzata ovunque per film come Portiere di notte e Francesco, I cannibali, La pelle, taglia un traguardo invidiabile, in piena forma, con un nuovo film in tasca.
L’età della pace non è nel suo vocabolario?
«Preferisco l’età del lavoro. Lavoro da 70 anni, sono quelli che vanno contati. E sono già troppi. Fino all’anno scorso nessuno si occupava dei miei anni. I numeri tondi sono insidiosi, tutti se ne ricordano e te li ricordano».
Lei invece non ci pensa?
«Certo che sì, so bene che la scadenza è vicina. Ci penso così tanto che il mio nuovo film parla proprio di questo, del tempo. Quello misterioso e sfuggente delle nuove frontiere della fisica, dove passato e futuro si confondono. Un tempo che si frantuma e non esiste più. E quindi, in questa prospettiva, i miei 90 anni non ci sono proprio».
Quanto mai opportuno è quindi per lei «L’ordine del tempo», titolo ispirato al saggio di Carlo Rovelli
«Ci siamo incontrati a casa mia, parlati a lungo. Un saggio non è una storia, la storia l’ho scritta io con Paolo Costella, Rovelli ha collaborato per la parte scientifica. Ed è finito pure nel film, interpretato da Edoardo Leo, il protagonista di una storia corale con attori davvero bravi quali Alessandro Gassmann, Claudia Gerini, Ksenia Rappaport e un cameo di Angela Molina».
Come si fa a trasformare una teoria della fisica in una storia cinematografica?
«L’idea di un tempo che sta per finire, di un’umanità che forse sta vivendo i suoi ultimi giorni, tra guerre, pandemie e catastrofi climatiche, è qualcosa che fa parte del sentire collettivo. La mia Apocalisse arriva dal cielo: un asteroide cambia rotta e punta sulla Terra. Si chiama Anaconda, come il serpente che si rigenera da solo. Una catastrofe annunciata che si cerca di tener nascosta per non scatenare il panico. Tra i pochi che ne sono a conoscenza il nostro fisico, che con alcuni amici si ritrova al mare per festeggiare un compleanno».
E ai vecchi amici si dice la verità, anche se sconvolgente
«Sapere che tra poco tutto finirà innesca mille reazioni. Che fare nelle ultime ore? Rimediare a degli errori, dire quello che non ho mai detto? Disperarsi o reagire? Sarà l’istinto di vita a prevalere: non sapendo quando moriremo, continuiamo a vivere, tenerci stretti gli affetti più cari. Fino all’ultimo istante».
Non pensare alla morte che sta arrivando. Una scelta che vale anche per lei?
«Nessuno vuole morire. Per me, cresciuta in una famiglia atea, l’aldilà non esiste. Però, mentre giravo Milarepa in Tibet, incontrai un Lama. Quando gli confidai che per me dopo non c’era nulla, scoppiò a ridere in modo irrefrenabile. Poi disse: ma con un’idea simile come fa a campare? Mi ha lasciato il dubbio che qualcosa resti, magari ci si trasforma, si vivono altre vite… Ma non m’importa».
Cos’è che conta per lei?
«Gli amori, le amicizie. Solo questi danno significato al breve spazio che si chiama vita».
E il cinema?
«È in cima ai miei amori, come l’amore per la cultura. Sto rileggendo l’Iliade. Il tempo della scuola è lontano, quello di Omero lontanissimo. Eppure mi è più vicina che mai. L’anello temporale, il loop di Rovelli, può cambiare il flusso degli eventi. Il tempo è memoria. Aver potuto studiare mi dà un profondo senso di gratitudine. La cultura è il dono più bello che si può regalare ai giovani».
Ma il caso, quanto conta in tutto questo?
«Moltissimo. Io mi sono laureata in filologia linguistica, ma poi a Roma mi sono iscritta al Centro Sperimentale, ho partecipato a un concorso Rai, l’ho vinto, ma ho rifiutato il contratto perché non volevo fare la regista interna. Volevo girare documentari. Per tre mesi mi sono chiusa negli archivi Rai a visionare i tantissimi materiali sui campi di sterminio. E poi ho girato La storia del Terzo Reich. Portiere di notte deriva da quello che ho visto allora. Quando mi dicono che esistono i negazionisti mi monta una rabbia terribile. Io quei lager li ho visti tutti».
Si dice atea, ma Francesco e Chiara sono i suoi santi protettori, tornati a più riprese nei suoi film
«Il primo Francesco, 1966, lo devo a Angelo Guglielmi che mi dette credito. Nel 2013 girai Mi chiamo Francesco. La Rai lo teneva nel cassetto finché, destino volle, Bergoglio diventò Papa e scelse quel nome. Il giorno dopo l’hanno messo in palinsesto».
Francesco, un nome che ha segnato il suo papato
«La sua voce è la sola a levarsi per la pace. Le guerre sono tutte ingiuste, bisogna smetterla e basta. La logica delle armi serve solo a chi le fabbrica».
Tornando alla nuova creatura, a che punto è il film?
«Abbiamo finito le riprese a Sabaudia. La casa sul mare che cercavo l’ho trovata lì, tutta di legno, un’Arca di Noè. Perfetta per il mio diluvio universale. Siamo nella fase montaggio. Il film sarà pronto per primavera».
Nel frattempo, come festeggerà i suoi 90 anni?
«Non voglio festeggiarli per niente. Il tempo non esiste ma le rughe sì. Se scoprono che ne ho troppe, dopo chi mi fa più lavorare?».