Corriere della Sera, 28 dicembre 2022
I padri di via Rasella
In una memorabile seduta della Camera dei deputati, il 6 novembre 1985, Bettino Craxi, presidente del Consiglio, difese il diritto dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) a far ricorso alla lotta armata per liberare il proprio Paese. Precisò che l’Olp «deve essere giudicata con il metro della storia», e come antecedente storico citò Mazzini, il quale, esule a Londra, «pur così religioso, così idealista, concepiva, disegnava e progettava gli assassini politici» al fine di conseguire «l’unità d’Italia». E dinanzi alle proteste di una parte della Camera (Msi e Pri soprattutto) Craxi replicò: «Questa è la verità della storia; contestare ad un movimento che voglia liberare il proprio Paese da una occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi significa andare contro la storia». Chi protestava aveva probabilmente dimenticato il fallito e sanguinoso attentato mazziniano di Felice Orsini (1858) contro Napoleone III (azione in cui fu non proprio marginalmente coinvolto anche Francesco Crispi, molti anni dopo presidente del Consiglio, come ricordò Sergio Romano in una prefazione alla riedizione, 1986, del suo Crispi, pp. 15-18). E si potrebbero ricordare anche le istruzioni mazziniane per la guerriglia nella Savoia raccolte nell’opuscolo del 1832 sulla «Guerra di bande» (Mazzini, Scritti editi e inediti, volume V, Politica III, Daelli, Milano 1861): «Calcolare con freddezza, eseguire arditamente, marciare instancabilmente, ritirarsi con rapidità, sapere tutto del nemico».
Valgano a tal proposito le considerazioni di Leo Valiani nella prima edizione (1946) del suo libro sulla Resistenza italiana Tutte le strade conducono a Roma: «Nell’atmosfera partigiana creatasi negli ultimi mesi del 1943 il terrorismo diventava fattibile anche in larga scala» (p. 169); «Per giungere all’insurrezione nazionale del 1944 (a Capodanno credevamo ancora di essere liberi prima del prossimo Natale) bisognava abituare le grandi masse alla realtà prosaica e paurosa del combattimento armato. Questo era lo scopo del terrorismo antifascista e antihitleriano e per questa ragione esso non rimase monopolio dei comunisti, le cui squadre di punta (i famosi Gap) furono le prime ad essere attrezzate, ma si estese ed ispirò i militanti di tutti i partiti democratici» (p. 172); «il terrorismo di città era diretto non contro tutti indistintamente i soldati nemici ma contro chi era adibito a compiti di polizia, di repressione, di rappresaglia. Esso fu adottato, malgrado i rischi morali e materiali che implicava, perché, oltre ad essere un metodo di autodifesa, si trattava di un dovere da compiere verso gli interessi superiori dell’Italia» (p. 171). Vi era – osservava allora Valiani – «il rischio di una alienazione delle simpatie della gente media, spaurita dalle esecuzioni in massa di ostaggi come rappresaglia», ma – obietta – «l’antifascismo militante decise di correre questo rischio» (p. 170). Queste pagine furono poi riproposte da Valiani con qualche ritocco, anche nella seconda edizione del suo libro (1983, pp. 127-130).
Credo che non ci possa essere miglior preambolo di questo alla lettura dell’importante recentissimo studio di Carlo M. Fiorentino, L’armata delle ombre. Gappisti e militari a via Rasella, Roma, 23 marzo 1944 (Leg Edizioni), che fa tabula rasa del livore denigratorio intorno a quel tragico evento e ne squaderna, con ampio e nuovo fondamento documentario, tutta la complessità. L’autore, già funzionario dell’Archivio Centrale dello Stato, ha studiato a fondo l’organizzazione gappista romana facente capo a Giorgio Amendola (pp. 19-68); inoltre, sottopone ad analisi critica la memorialistica dovuta ai protagonisti o a chi si ritenne tale (pp. 69-116); pone in particolare rilievo il ruolo di altri soggetti a cominciare dal «Fronte Militare Clandestino della Resistenza» (Fmcr), ma segnala anche il peso e l’azione abile e instancabile del Vaticano e, non meno rilevante, il rapporto sotterraneo con elementi della polizia italiana collegati ad Amendola e considerati con malcelato sospetto dagli occupanti tedeschi. Recupera in senso positivo la irritata e, nelle intenzioni, sprezzante definizione di matrice nazista: «Comunisti badogliani»; in realtà – osserva l’autore (p. 276) – sarebbe più esatto dire «amendoliani badogliani»: una definizione che tiene conto ovviamente dei materiali e delle considerazioni sviluppate nei capitoli precedenti. La conclusione cui giunge Fiorentino è che i Gap centrali romani si attribuirono l’esclusiva paternità dell’attentato, che ebbe invece molti padri: dalla organizzazione del Fronte Militare ad elementi legati ai servizi, alla più che partecipe consapevolezza dell’organizzazione romana del Partito d’Azione. Si ricordi a tal proposito la soppesata frase di Leo Valiani sul terrorismo necessario contro le «forze di polizia» occupanti e tale per l’appunto era il battaglione bolzanino integrato nella Wehrmacht e colpito a via Rasella.
Merito di Amendola e della sua organizzazione – così si conclude il volume – fu di aver saputo, pur nelle loro «controverse memorie», «mantenere la consegna del silenzio» sull’effettivo svolgimento e sui retroscena, e di essersi «fatto carico della responsabilità dell’azione militare di via Rasella, che comportò la feroce rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine» fungendo così da «parafulmine nei confronti dell’opinione pubblica nazionale più misoneista» (pp. 278-279). Al tempo stesso l’autore definisce l’attentato di via Rasella come il fatto d’arme più rilevante della Resistenza italiana e, forse, di quella europea occidentale.
L’autore è attento non soltanto alla ricostruzione dei fatti, ma anche e non meno alla rappresentazione che fu data di essi: alla eco immediata, all’uso, alle reazioni dell’opinione pubblica e al modo in cui tali reazioni furono percepite dal Ccln (Comitato centrale di liberazione nazionale). Da Radio Londra il 29 marzo Paolo Treves (Sul fronte e dietro il fronte italiano) deplora con toni di grande commozione il massacro delle Fosse Ardeatine ma inneggia all’attentato: «Quelle bombe gloriosamente lanciate dai patrioti contro il drappello nemico che scendeva tronfio per via Rasella». Il 30 marzo, Mauro Scoccimarro, membro del Ccln e della Giunta militare, invia a Milano (cioè a Longo e a Secchia) una lunga informativa, edita poi da Longo nel 1973 nel volume sui Centri dirigenti del Pci nella Resistenza, ripresa in questo volume alle pp. 177-178. Scoccimarro registra la reazione «di riserva verso di noi: rigurgito di attesismo»; e ammette: «Questo rifletteva un po’ lo stato d’animo della popolazione»; ma poi aggiunge: «Abbiamo reagito energicamente non esitando a prendere la paternità dell’avvenimento pubblicando un comunicato dei Gap». E ritiene di poter affermare che a seguito di tale comunicato «ora il punto morto è superato: lo stato d’animo si è risollevato a nostro favore». Ma aggiunge anche dei particolari sulla discussione avvenuta nella Giunta militare: «Nei partiti di destra abbiamo trovato solidarietà ma anche dubbi sulla opportunità di tale azione». Per parte sua «il Partito d’Azione ci ha sostenuti anche se fra loro c’era chi disapprovava», «inqualificabile invece la protesta e disapprovazione del delegato socialista». Con asprezza Scoccimarro conclude l’informativa dichiarando che nelle fucilazioni fatte dai tedeschi per rappresaglia «abbiamo perso molti compagni che si trovavano in carcere», ma che questo è «il duro prezzo che dobbiamo pagare e per il quale ogni buon compagno deve essere oggi preparato».
L’accurata ricerca condotta dall’autore di questo volume ha portato ad un risultato che richiama alla mente quanto scrisse già molto presto Benedetto Gentile sui «molti padri» dell’attentato contro suo padre (Giovanni Gentile dal discorso agli Italiani alla morte, Sansoni, 1951, p. 56). Alla luce di questa indagine appaiono meglio comprensibili le parole contenute nella lettera di Scoccimarro: «Non esitando a prendere la paternità dell’avvenimento».
La ricerca storica – se è consapevolmente critica – non si pretende conclusiva, è piuttosto una marcia di avvicinamento. Anch’essa però paga un prezzo. Col passar del tempo e grazie allo scavo documentario, essa compie progressi importanti ma perde per lo più la percezione di quanto pesarono lo stato d’animo, le passioni, la esasperazione, le sofferenze e le conseguenti reazioni dei contemporanei più o meno direttamente coinvolti: elementi tutti necessari per comprendere le loro azioni nella loro temperie. E forse anche per questo l’ateniese Tucidide teorizzò che si può scrivere veridicamente soltanto di fatti dentro i quali si è vissuto.