il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2022
Con Annie Ernaux torna la “lotta di classe”
“Lei parla tanto contro l’arte, ma Lei ha fatto dell’arte!”: la contraddizione che in un vecchio Bouillon de culture Bernard Pivot rimproverava ad Annie Ernaux si è specchiata nel passo esitante con cui l’anziana scrittrice si è fatta avanti settimane fa nella sala dell’Accademia di Svezia, carica della propria strutturale estraneità – nel senso di Bourdieu – al mondo dell’intellighenzia. La stessa decisione di parlare non già dal solito pulpito bensì seduta su una poltrona, con aria quasi dimessa, va oltre la mera prossemica.
Le Nobel Lectures offrono per lo più elogi della letteratura come redenzione personale da situazioni di marginalità geografica o culturale, oppure come specchio e memoria di traumi collettivi (guerre, dittature, apartheid). L’obiettivo, consolatorio e condito da insincere professioni di modestia, viene perseguito con gli stili più vari, ma emerge anche nei testi più inclementi e anticonvenzionali (Peter Handke, Elfriede Jelinek) e si sublima nelle orazioni dei tanti autori “esotici” (dal punto di vista eurocentrico) premiati negli ultimi anni.
Il discorso della Ernaux non ha nulla di accomodante: dai suoi diari di ventenne (lei che dei propri diari non ha esitato in passato a pubblicare financo le virgole) ella riesuma una frase programmatica “violenta, lapidaria, inconfutabile”: “Scriverò per vendicare la mia razza”. La razza – un termine qui paradossalmente ben più centrale che in Abdulrazak Gurnah, V. S. Naipaul, Toni Morrison… – è la razza inferiore sbandierata da Rimbaud nel Sangue cattivo, che tiene dell’etnico (i Galli) e del sociale (gli oppressi). Etnologa nell’animo (ha dichiarato di scrivere “qualcosa a metà tra la storia, la sociologia, la letteratura e la poesia”), la Ernaux ripercorre senza alcun cedimento elegiaco la propria gioventù di ragazza di provincia e delle classi subalterne (quello di tanti suoi libri, da Il posto a La vergogna) nutrita dell’illusione “che scrivere libri, diventare scrittrice al termine di una stirpe di contadini senza terra, di operai e di piccoli commercianti, di persone disprezzate per i loro modi, il loro accento, la loro incultura, sarebbe bastato a riparare l’ingiustizia sociale della nascita”.
Non dunque da un villaggio asiatico o africano, ma dal cuore del Paese più colto dell’Occidente arriva la rivendicazione senza sconti del ruolo della scrittura come luogo di emancipazione per “la mia voce di donna e di transfuga sociale”, strumento di una rabbia che perdura. Ma come scrivere? Per redimersi dalla “perfezione” dei modelli letterari indiscussi (Flaubert, Proust, gli stessi che usava come paradigmi nel suo ruolo di insegnante di scuola), la Ernaux ha tentato il recupero della lingua “utilizzata dagli umiliati e dagli offesi come unica maniera di replicare alla memoria del disprezzo, della vergogna, e della vergogna della vergogna”. Poi, temendo che questa scelta potesse ingenerare nel lettore (un “privilegiato culturale”: si ricordi il recente Ouistreham (Tra due mondi, ndr) con Juliette Binoche) “la stessa posizione di altezza e di condiscendenza verso il personaggio del libro che avrebbe avuto nella vita reale”, ha virato verso la “scrittura piatta”, lo stile neutro e asettico che in tanti le hanno rimproverato (memorabili le recensioni sul Nouvel Observateur che ne additavano la sciatteria, l’oscenità, l’esibizionismo), e che mira a far emergere la violenza dei rapporti di dominazione sociale dai nudi fatti in sé.
Bersagli: l’omologazione linguistica sui modelli “alti”, tuttora operante nel curriculum francese. L’omologazione consumistica (“essere come tutti era l’obiettivo generale, l’ideale da conseguire”). L’omologazione sociale che dalla scuola cattolica al focolare disegna(va) per la donna un percorso preciso (da L’evento – l’aborto clandestino praticato in gioventù – a La donna gelata – trent’anni e due figli, la gabbia del ruolo di madre –, alla scandalosa Passione semplice), e che ancor oggi perseguita le scrittrici (per tanti intellettuali maschi “i libri scritti dalle donne semplicemente non esistono, non li citano mai”; capita anche in accademia).
Nel Journal du dehors, raccolta di istantanee che colgono la folla anonima della Rer o dei boulevard, perché “gli altri sono anche noi, e noi siamo negli altri” –, la Ernaux spiega la sistematica adozione della prima persona (che nel discorso di Stoccolma riconduce fino al preambolo delle Confessioni di Rousseau): “‘Io’ sono io, lettore, ed è impossibile – o inammissibile – che io legga l’oroscopo e mi comporti come una frivola sartina. ‘Io’ fa vergogna al lettore”.
E allora io, lettore, non taccio qui quanto il discorso della Ernaux ricordi – si parva licet – l’iter di mia madre, figlia di operai nel Lazio degli anni 50, “salvata dalla cultura”. L’esilio interiore, la tormentata fedeltà alle origini rinnegate, il passo esitante di una storia incompiuta che ancora ci interroga.