La Stampa, 24 dicembre 2022
Sul bambino Gesù e l’infantilismo cattolico
Il cattolicesimo è l’unica tra le confessioni cristiane a infantilizzare il suo Dio.Non è raro vedere chiese, ospedali e ordini religiosi intitolati a un Bambin Gesù di cui nel Vangelo non c’è traccia, oltre la nascita. Tanto meno gli evangelisti hanno scritto sull’infanzia di Gesù, quanto più gli autori apocrifi successivi – esclusi dal canone perché la loro mitomania prevaleva sul mito – li hanno infiorettati di leggende per compensare quello che i Vangeli avevano invece ritenuto inutile ai fini della trasmissione della fede. Nelle altre chiese di derivazione evangelica la devozione per Gesù neonato – o per Maria bambina, di sponda – è praticamente inesistente e le poche eccezioni, come il Bambino di Praga, restituiscono l’immagine di un infante mistico, per nulla tenero, un’inquietante miniatura d’adulto con lo sguardo fermo, lo scettro della sovranità in una mano e nell’altra la sfera del mondo, grande come un’arancia o una palla, un gioco da bambini per ricordare che piccolo è l’universo, non chi lo tiene sul palmo.Solo i cattolici hanno compiuto nella persona del Cristo incarnato l’idealizzazione dell’infanzia, costruendo intorno alla sua nascita una retorica di tenerezza zuccherosa priva di riscontro biblico. Nelle Scritture il racconto della nascita di Gesù somiglia infatti più alla trama di un film drammatico, sebbene cominci da un innesco piuttosto banale, di quelli in cui potremmo presto o tardi incappare tutti: si parte da un viaggio scomodo intrapreso per obbligo burocratico imposto dal governo. C’è un censimento, si va e si torna, non si può fare diversamente, si viaggia anche se si è al nono mese e se proprio il bambino non aspetta, pazienza, vuol dire che nascerà dove è nato il babbo, al peggio ci si ferma lì per un po’, in attesa di essere di nuovo in grado di tornare a casa. Il viaggio forzato prende però un’altra piega e diventa in un lampo prima un respingimento dai luoghi sicuri dove si credeva di trovare posto, poi un parto in un luogo rimediato e infine una brusca fuga in un’altra nazione decisa lì per lì per salvarsi la vita. I protagonisti sono un padre che cerca di far fronte agli imprevisti, una madre stremata e un bambino ignaro che finirà oggetto di una caccia all’uomo perché frainteso come aspirante al trono dal re complottista di quella piccola colonia dell’impero, perché meno è il potere che si ha, più si ha paura di perderlo.A passare da cittadini obbedienti a profughi a volte basta un attimo, eppure non si era partiti male. La famiglia di Nazaret era modesta, ma non indigente: Giuseppe cercava alloggio perché poteva pagarlo e se alla fine riparava nella stalla era solo perché la piccola rete turistica di Betlemme aveva finito i posti, non perché gli mancassero i mezzi. Per secoli abbiamo giudicato torvamente gli albergatori di Betlemme, ma alla fine la loro sola colpa, se tale la vogliamo considerare, era di essere sold out. Non c’è razzismo in chi respinge, non c’è odio, nessun problema personale né ideologico: Giuseppe e Maria finiscono senza tetto per un fatto puramente tecnico e del tutto ragionevole. In quelle pagine evangeliche una donna partorisce per terra in una stalla in mezzo agli animali, ma chiunque può dire sereno «non è colpa mia». In capo a pochi giorni decine di guardie saranno sguinzagliate per tutta la regione alla ricerca dei nati in quella notte, ma anche in quel caso non sarà colpa di nessuno: se qualcosa minaccia la stabilità di una nazione, è giusto che chi la governa se ne difenda come può. Sono bambini? Ma cresceranno. Sono innocenti? Chi è davvero innocente, avrà pensato Erode. Tutti nasciamo affamati e quella fame, uguale in bocche piccole e in bocche grandi, al momento di azzannare non guarderà in faccia nessuno, nemmeno il re. Giuseppe è sveglio abbastanza da capire che non ha molto tempo. Tutti e tre si ritroveranno esuli in un viaggio che è lungo anche a farlo oggi, trovando asilo proprio in quell’Egitto da cui i loro antenati schiavi si erano emancipati secoli prima; fa un po’ sorridere che a volte la patria che non volevi finisca per essere l’unica che ti puoi permettere. Prima che la famiglia di Gesù possa tornare indietro al sicuro passerà qualche anno, forse troppo pochi per accedere allo ius culturae, ma anche di quelli non sappiamo nulla: quel che si doveva dire è stato detto. Perché mai di questa vicenda così piena di colpi di scena e cose spaventose, dove la posta in gioco è la vita stessa e tutto può andar perduto in un attimo, ci è rimasta attaccata alla fantasia solo l’icona della capanna (anzi della capannina) splendente e magica, degli angeli (anzi angioletti), che cantano la pace santa e dei pastori (anzi, pastorelli) che recano doni al bambino (meglio, al bambinello) che dovrebbe rappresentare la sacralità intoccabile delle nostre famigli(ole) al sicuro?Dio si è fatto come noi per farci come lui, recita il verso di un noto canto d’Avvento, talmente mistificatorio che verrebbe quasi da dare ragione all’emerito papa Ratzinger, ostile sin da cardinale alla deriva creativa della musica liturgica post conciliare. Anche se gli analisti tratteranno spesso pazienti convinti del contrario, diventare come Dio non è alla nostra portata. Dio si è fatto come noi perché ha preso sul serio il nostro essere umani, tutti: il padre, la madre, il bambino, l’albergatore, il pastore, il re complottista, la sua guardia e il primo egiziano che ha offerto un lavoro a Giuseppe profugo. Umano è obbedire a un potere che governa con la forza. Umano è chiedere riparo se viaggi e altrettanto lo è chiedere dei soldi in cambio, ma è umano anche non avere più posto da dare nonostante i soldi. Umano è temere che un altro ti porti via quel che hai, fino a puntargli una spada contro, ma lo è anche lasciare una patria per salvare la vita che quella spada sta minacciando. Umano è tutto quello che ci costringe ad abitare la contraddizione, che è sempre un posto scomodo.Se l’unica incarnazione che ci commuove è quella del neonato, è perché è più facile rendere la divinità bambina che l’umanità adulta davanti alle sue contraddizioni.