il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2022
Costituzione, 75 anni tra assalti e tradimenti
La Costituzione stabilisce anche il proprio compleanno: la XVIII disposizione transitoria e finale fissa la data di entrata in vigore, il primo gennaio del 1948. Settantacinque anni fa, il 27 dicembre 1947, cinque giorni dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea costituente, “la più bella del mondo” fu promulgata da Enrico De Nicola, Capo provvisorio dello Stato, e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75, durante il discorso per l’approvazione definitiva dell’Aula aveva detto: “Finora ci siamo divisi, urtati, lacerati nella stessa discussione del testo costituzionale. Ma vi era uno sforzo per raggiungere l’accordo e l’unità. Ed ora io sono sicuro che nell’approvazione finale il consenso sarà comune e unanime e dirò che, al di sotto di una superficie di contrasto, vi è una sola anima italiana. L’Italia avrà una Carta costituzionale che sarà sacra per tutti gli italiani”.
I deputati (556, di cui 21 donne) erano stati eletti (con il sistema proporzionale, voluto proprio per garantire la massima rappresentanza possibile) contestualmente al referendum istituzionale con cui gli italiani avevano scelto la forma repubblicana (che secondo l’articolo 139 della Carta stessa non può essere oggetto di revisione costituzionale). L’elezione dei costituenti è il primo passo di un’inversione del rapporto tra gli italiani e lo Stato: non più sudditi ma cittadini che scelgono i loro rappresentanti per scrivere le regole di una convivenza basata su valori nuovi, quei principi fondamentali e inviolabili che permeano l’intera Carta. Il loro compito, scrivendo la Costituzione, era ricostruire la Nazione sulla base di un rinnovato patto sociale dopo un ventennio di dittatura e una guerra sanguinosa che aveva lacerato il Paese. “Giuridicamente gli italiani non avevano una casa”, disse Oscar Luigi Scalfaro anni dopo: “La Costituente era necessaria: un popolo ha bisogno di una casa dove possa sentirsi al sicuro”.
Nonostante le picconate della politica, la casa è ancora salda, perché solidissime sono le sue fondamenta (lavoro, istruzione, salute, giustizia sociale, uguaglianza sostanziale). Piero Calamandrei, in un famosissimo discorso del 1955, mise sull’avviso: “C’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente (…) Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani”. Ecco a cosa serve quel “pezzo di carta, che se lo lascio cadere, non si muove”. Per spiegarlo Calamandrei era partito dal secondo comma dell’articolo 3: “Dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo 1 – L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro – corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica (…). E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”.
Un compito in gran parte disatteso, quello dell’attuazione della Carta: la politica ha preferito tentare di modificarla. Negli ultimi quattro decenni sulla nostra povera Carta abbiamo dovuto sentire ogni sorta di sciocchezze, per bocca di leader e governanti che di volta in volta tentavano di stravolgerla, pensando di scaricare sull’architettura istituzionale l’inettitudine sempre più evidente di una classe dirigente che non riesce nemmeno a partorire una legge elettorale decente.
Bistrattata, vilipesa, accusata di ogni sorta di difetti, la Costituzione è stata il più agevole capro espiatorio dell’impasse politico. Prova ne sia il fatto che quando è stata modificata, i cambiamenti sono stati spesso peggiorativi come è accaduto con la riforma del Titolo V o lo sciagurato articolo 81 sul pareggio di bilancio.
Durante un intervento a un convegno al Senato, nel 2017, il professor Alessandro Pace spiegò benissimo cosa i costituenti intendevano per “modifiche”. “Fino al 1983 sia le leggi costituzionali, sia le leggi di revisione costituzionale hanno sempre avuto un contenuto puntuale od omogeneo. In linea quindi con quanto il presidente Terracini aveva affermato, in risposta all’onorevole Mortati, che l’Assemblea costituente si doveva ‘limitare all’ipotesi di una revisione parziale’. Era quindi pacifico che le modifiche costituzionali dovessero servire solo a cambiare specifiche disposizioni; ‘ad ammodernare, adeguare, perfezionare, rabberciare un vecchio meccanismo’ o a innovare qualche istituto politico lasciando intatti gli altri”.
L’articolo che regola il processo di revisione della Carta, il 138, prevede un iter lungo, prescritto saggiamente dai costituenti perché le modifiche siano ponderate, discusse, condivise: un maldestro tentativo, durante il governo Letta, provò addirittura (per fortuna vanamente) a scardinare la norma architrave di tutta la Carta.
Delle possibili “riforme” costituzionali si cominciò a parlare alla fine degli anni 70, col famoso articolo di Bettino Craxi sull’Avanti, in cui il leader socialista teorizzava “la Grande Riforma” che consisteva nella modifica della forma di governo da parlamentare in presidenziale. Non ebbe alcun seguito; ma, come sappiamo, nell’orizzonte dell’attuale governo c’è la stessa intenzione.
La storia dei successivi tentativi di riforme è lunga e pressoché interamente fallimentare. Intanto le bicamerali. La prima commissione bicamerale risale al lontano 1983, era presieduta dal deputato Aldo Bozzi, da cui prese il nome: non portò a nulla, come le successive due, che furono approvate ma non ebbero alcun seguito dal punto di vista legislativo (la commissione De Mita-Iotti nel 1993-94 e quella presieduta da Massimo D’Alema nel 1997). Il vento del nuovo Millennio porta con sé la stagione delle riforme monstre. Nel 2006 la riforma costituzionale voluta da Silvio Berlusconi stravolgeva la carta in più punti (dalla trasformazione della Camera alta in Senato federale fino all’istituzione del “premierato forte”). Ci pensano gli italiani, al referendum, a fermare le ambizioni autocratiche del centrodestra. Dieci anni dopo, durante una legislatura sfigurata da reiterate forzature istituzionali, è stato il governo sinistro di Matteo Renzi a promuovere una riforma che modificava un terzo della Carta, sonoramente bocciata dagli elettori che invece nel 2020 hanno dato il via libera alla riduzione del numero dei parlamentari.
Settantacinque anni dopo, e dopo innumerevoli assalti che saranno nuovamente tentati dall’attuale maggioranza, la vecchia signora che molti vogliono far passare per svanita e démodé , aspetta ancora di essere ascoltata: la polemica contro il presente evocata da Calamandrei non è affatto archiviata, è anzi sempre più attuale. E mentre ci apprestiamo a fronteggiare l’ennesima, inutile e dannosa, grande riforma (che va dalla secessione delle Regioni ricche al presidenzialismo) i famosi principi fondamentali, quei diritti civili e sociali che solo a parole sono intoccabili, vengono svuotati ogni giorno di più.