La Stampa, 27 dicembre 2022
L’intervento di Giuliano Amato sui diritti
La vicenda dei diritti umani, divenuti centrali nei secoli di cui noi stessi stiamo tuttora vivendo, e costruendo, la storia, viene fatta risalire alle dichiarazioni che a fine Settecento li proclamarono come universali: la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776 – «consideriamo verità per se stesse evidenti che tutti gli uomini sono creati eguali; che sono stati dotati dal loro Creatore di taluni diritti inalienabili» – e la dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789- «gli uomini nascono e rimangono liberi e eguali nei loro diritti». È vero infatti che essi hanno degli antenati nelle carte risalenti addirittura all’età medievale. Ma questi erano diversi, corrispondevano a intrusioni nella vita altrui che chi esercitava il potere prima si concedeva e che quelle carte avrebbero reso non più possibili per il futuro. Per questo avevano, fra l’altro, una dimensione molto spesso specifica e concreta. La Magna Charta, frutto in realtà di un accordo che i baroni imposero nel 1215 al re, Giovanni Senzaterra, conteneva clausole che vincolavano l’imposizione dei tributi al «comune consenso», che esigevano per le ammende la proporzionalità all’illecito, sino anche a stabilire che «nessuno sceriffo o balivo prenderà i cavalli o i carri di un uomo libero per fare un trasporto se non con la sua volontà», o che «né noi, né gli sceriffi prenderanno gli alberi altrui, per i nostri castelli o altri lavori, se non», appunto, con la volontà del proprietario. Vi potrà colpire l’unica menzione che troviamo delle donne: «Nessuno sia preso o imprigionato per denunzia di una donna per la morte di persone diverse dal marito di lei».
I diritti universali – «tutti gli uomini…» – nel momento in cui per le prime volte furono proclamati a fine Settecento avevano la forza di farsi valere, alla stessa maniera dei diritti antenati, soltanto per i ceti protagonisti della loro proclamazione. Fu così negli Stati Uniti, dove la Dichiarazione di indipendenza e la successiva Costituzione convissero a lungo con lo stato di schiavitù degli afro-americani, che da schiavi erano entrati nel Paese. E fu così anche nella Francia post-rivoluzionaria, dove nulla cambiò inizialmente per i contadini e gli altri ceti deboli, che pure erano stati coinvolti nella rivoluzione. Insomma, per una buona parte di quei tutti, nelle medesime società delle proclamazioni e ancor più nel mondo più largo, l’universalità dei diritti fu solo un ideale da realizzare.
Era un’ideale bellissimo, il più straordinario che l’umanità abbia mai concepito. Può ben essere che chi lo formulò avesse a cuore soltanto i suoi simili, i ceti che rappresentava. Ma quelle parole furono un messaggio che inesorabilmente avrebbe raggiunto, passo dopo passo, l’intera umanità. E a chiunque, ovunque vivesse e quale che fosse la condizione in cui viveva, diceva che quei diritti erano anche suoi, che era dunque ingiusto che non gli fossero riconosciuti. Ci sarebbe voluto tempo perché il messaggio si diffondesse. Ma si avviò un processo, che continua ancora oggi.
Quali ne sono stati gli effetti? Da un lato un cambio progressivo di credenze, di aspettative e la nascita di consapevolezze di discriminazioni e ingiustizie prima neppure avvertite, che sono venute coinvolgendo persone in ogni parte del mondo. Dall’altro lato però, nonostante la asserita universalità del messaggio, l’incontro o lo scontro con la diversa maturazione civile e sociale delle diverse comunità nazionali in cui il mondo era ed è diviso. Con il risultato che in alcune di tali comunità i diritti si affermano, prima a beneficio dei deboli che di esse fanno parte, poi anche, faticosamente e parzialmente, degli altri che vi sono ammessi. In altre non riescono proprio a penetrare e ne resteranno sprovviste le donne, le minoranze religiose, le caste inferiori, le fasce comunque più deboli per reddito ed istruzione.
Ci rendiamo conto così che ciò che spinge avanti il processo, prima ancora che nella cultura e nella lungimiranza delle istituzioni di governo, va cercato in realtà nelle coscienze – nelle coscienze dei tanti che devono acquistare consapevolezza del loro diritto ad avere diritti che mai hanno avuto in passato e nelle coscienze di coloro che arrivano finalmente a ritenere ineludibile che quei diritti siano riconosciuti a chi non li ha. Ma siccome siamo culturalmente, e non solo culturalmente, divisi in comunità nazionali, il risultato è che la garanzia dei diritti si viene concretizzando, inevitabilmente, a macchia di leopardo.
Dopo la Seconda guerra mondiale, dopo le morti e gli orrori a cui la stessa guerra e la shoah avevano imposto all’umanità, fu la comunità internazionale, raccolta nell’organizzazione delle Nazioni Unite, ad adottare la sua dichiarazione universale dei diritti umani, riprendendo le formulazioni di quelle di fine Settecento e dando loro maggior vigore: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e eguali in dignità e diritti» (c’è ora, non a caso, anche e in primo luogo la dignità, che la shoah aveva selvaggiamente calpestato). Il messaggio dell’universalità diveniva dunque ancora più forte. E certo più forte sarebbe diventata la sua capacità di penetrare in ogni angolo del mondo. Ma questo non bastava, di per sé, a sciogliere il nodo del fondamentale problema che ancora oggi abbiamo largamente davanti: la comunità internazionale, che quei diritti li ha proclamati universali, ma ha scarsi strumenti per farli rispettare, soprattutto laddove vengono maggiormente limitati o addirittura negati. Le varie comunità nazionali sono coperte, ciascuna, dalla sovranità dello Stato e siccome gli Stati sono rimasti i veri motori della comunità internazionale ben difficilmente essa può imporre a questo o quello Stato qualcosa che vada a sbattere nella sua giurisdizione sovrana.
Quali sono allora le garanzie di cui questi diritti dispongono? Negli ordinamenti interni, che già dall’Ottocento presero a riconoscerli, sappiamo che c’è stata una lenta, ma efficace progressione. La garanzia fu allora la riserva di legge, che tranquillizzava i ceti rappresentati nei Parlamenti, i ceti che avevano sottratto ai re il potere legislativo. Non era una garanzia particolarmente forte davanti a ciò che le maggioranze potevano di volta in volta decidere, ma non si può negare che dei risultati vi furono. Pensiamo all’Europa: fu abolita, dove ancora c’era, la schiavitù (che sparì anche negli Stati Uniti, sia pure al prezzo della guerra civile), fu introdotta la tolleranza religiosa, cominciò a prendere corpo il diritto al giusto processo. E si aprirono la strada i primi diritti sociali. Fu dopo che la riserva di legge avrebbe dimostrato di non bastare. Fu davanti ai regimi totalitari del Novecento; i quali la rispettarono e, con legge, soppressero legalmente diritti e libertà; sino all’orrore delle leggi razziali, che anche in Italia cancellarono dalla vita civile migliaia e migliaia di italiani solo perché ebrei.
Di qui i poderosi passi avanti compiuti nel secondo dopoguerra, proprio mentre nasceva la Dichiarazione universale delle Nazioni Unite: riserve «rinforzate» di legge (la Costituzione non si limita a riservare alla legge i limiti alle libertà, ma stabilisce anche i modi e i motivi a cui la legge si deve attenere) e Corti Costituzionali a garanzia del loro rispetto da parte delle stesse maggioranze parlamentari. In talune Costituzioni ricorso diretto a queste stesse Corti per violazione dei diritti fondamentali. Ciò non significa che in questi ordinamenti la violazione dei diritti umani sia stata bandita. Significa che vi sono strumenti per contrastarla e che è largamente contrastata. Ma vi sono vaste aree in cui le stesse Costituzioni più garantiste sono messe a dura prova e le Corti sono chiamate a constatarlo: nel trattamento degli immigrati, nella disciplina penale davanti a particolari reati (l’Italia è giustamente orgogliosa di aver combattuto terrorismo e mafia senza leggi speciali. Ma ha introdotto norme speciali nei suoi codici e nelle sue leggi ordinarie che destano a volte non pochi dubbi). Per non parlare poi dei cosiddetti nuovi diritti, secondo alcuni rientranti, secondo altri non rientranti in quelli fondamentali scritti anni fa. Qui vi sono anche oscillazioni in singoli Paesi, si pensi all’interruzione della gravidanza negli Stati Uniti, o differenze fra Paesi vicini, come da noi in Europa sul matrimonio, o sola unione civile, per le coppie omosessuali. Il tutto esalta e rende però difficile e contestato il ruolo delle Corti.
Davanti a tutto questo e, ancor più, davanti agli ordinamenti nazionali che i diritti proprio li ignorano, che cosa è venuto facendo l’ordinamento internazionale? Ha creato anch’esso corti competenti a tutelarli, ma nel farlo ha dovuto fare i conti – come dicevo – con la sovranità degli Stati. Questo ha avuto ed ha effetti fortemente limitanti e tuttavia, negli ultimi decenni, si sono aperte strade che profilano prospettive più incoraggianti. Andiamo con ordine.
Partiamo dalle situazioni nelle quali la sovranità statale è un blocco non eludibile. Pensate alla Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità, quella oggi invocata per i crimini di guerra in Ucraina. C’è, funziona, ma, nata con un trattato – e i trattati impegnano solo gli Stati che li hanno firmati – può agire soltanto nei confronti di tali Stati. Sugli altri, e la Russia è fra questi, non ha titolo a intervenire.
È già in una posizione migliore la Corte internazionale di giustizia creata dall’Onu nel 1945. La sua giurisdizione si impone infatti a tutti gli stati membri dell’Onu e lo fa solo su questa base, senza bisogno della adesione specifica di ciascuno. Ciò nondimeno la Corte è molto attenta a non erodere più di tanto la sovranità deli Stati, che – non dimentichiamolo – è un tratto costitutivo delle stesse Nazioni Unite (strette fra l’art. 1 par. 2 della Carta, che proclama l’eguaglianza dei diritti e il diritto all’autodeterminazione dei popoli, e l’art.2 comma 7, che esclude che la carta abiliti l’Onu a intervenire nelle questioni di competenza interna dei singoli Stati). Tutti ricordano la sentenza n. 238 del 2014 della nostra Corte Costituzionale; una sentenza discussa e forse discutibile sui diritti dei nostri militari violati dalla Germania, che durante la loro prigionia li aveva sottoposti ai lavori forzati. Ma è innegabile che fosse meritata la critica all’estensione, lasciata dalla Corte Internazionale, alla immunità sovrana degli Stati. Il che è comunque, davanti ai diritti, il cuore del problema.
Un problema risolto assai meglio con le Corti, create sempre dalle Nazioni Unite, per decidere su crimini commessi in contesti definiti e specifici, sul modello del Tribunale di Norimberga: il tribunale per i crimini nel Ruanda, quello per l’ex Jugoslavia, quello per il Libano. Qui la giurisdizione dei tribunali non ha incontrato ostacoli e i processi si sono svolti con caratteristiche in tutto simili a quelli della giustizia interna. Certo – qualcuno potrebbe obiettare – questa giustizia funziona anche perché è, a cose fatte, la giustizia dei vincitori. Ma si può osservare di contro che le garanzie procedurali, e le stesse norme sostanziali che si applicano, sono all’altezza degli standard più rigorosi di «rule of law».
Le soluzioni migliori – quelle a cui si legano le prospettive più incoraggianti di cui prima dicevo – le troviamo nelle ampie isole dell’ordinamento internazionale costituite dalle organizzazioni regionali di Stati: l’organizzazione degli Stati Americani, l’Osa, in America Latina, l’Organizzazione dell’Unità Africana, il Consiglio d’Europa e l’Unione europea da noi. Ciascuna di queste organizzazioni ha adottato una carta dei diritti riguardante l’insieme degli Stati che ne fanno parte e i loro cittadini; a garantirne il rispetto sono Corti di Giustizia, alle quali, con modalità sia pure diverse, hanno accesso gli stessi cittadini che lamentano una violazione; le decisioni delle Corti hanno effetti nei singoli Stati: nell’Unione europea, che ha il più perfezionato di questi meccanismi, sino alla obbligatoria disapplicazione dell’atto dichiarato illegittimo. L’assimilazione di questa giustizia a quella interna, specie appunto in Europa, è quasi totale. Non solo, ma la giurisprudenza di tutte queste Corti – noi abbiamo sott’occhio quella delle Corti europee – ha contribuito a migliorare non poco la tutela dei diritti nei singoli Stati dall’interno dei quali era loro giunta la doglianza. Il che significa che l’ordinamento internazionale, specie quando è divenuto, come qui, sovranazionale, ci ha messo del suo nel bagaglio protettivo dei diritti umani, imponendosi sugli stessi Stati.
Qual è la lezione che si ricava da tutto questo? Che le organizzazioni regionali, le quali usualmente nascono per constatata comunanza di interessi (più che di principi e valori), presuppongono tuttavia anche una qualche comunanza, appunto, di principi e valori e i legami più stretti fra le popolazioni che esse portano con sé producono anche l’effetto di avvicinarle ancora di più su questo stesso terreno. Vi saranno certo differenze, come ben sappiamo in Europa, ma si verrà allargando la piattaforma comune. Ed è su una tale piattaforma che si collocano la creazione, e l’accettazione di giurisdizioni comuni a difesa degli stessi diritti.
Col che torniamo al punto di partenza: i diritti, per affermarsi e per poggiare su fondamenta più forti della sovranità degli Stati, devono radicarsi nelle coscienze, conquistare le coscienze di chi inizialmente può non esserne convinto. Scatta a quel punto quel riconoscimento dell’altro che è l’ingrediente essenziale di quel sentimento comunitario incompatibile con paratie come quelle innalzate dalla sovranità statale.
Arrivo, con questo mio punto conclusivo, esattamente a quanto scriveva uno dei maggiori studiosi dei diritti umani, Antonio Cassese, mio carissimo amico e compagno nel collegio medico giuridico, antenato del Sant’Anna, professore a Firenze e presidente sia del tribunale per la ex Jugoslavia sia di quello per il Libano. Poiché così stanno le cose, scriveva, ciò a cui dovremmo ambire è trasformare la comunità internazionale in una «societas». Il riconoscimento dei diritti – spiegava – non è un ritorno allo stato di natura, come implica chi parla di diritti naturali. È al contrario il frutto della nostra maturazione etica e civile, che porta al superamento dell’aggressività propria, essa sì, dello stato di natura. Certo, la trasformazione in «societas» della comunità internazionale era una prospettiva che lui vedeva lontana, lontanissima, eppure la assumeva come ideale. A ben guardare, è lo stesso ideale trasfuso nelle dichiarazioni universali dei diritti. Ed è ciò che le organizzazioni regionali hanno cominciato a costruire in parti diverse del globo. E, notiamolo, queste parti sono diverse, le culture che in ciascuna di esse interpretano principi e valori sono diverse, ma i diritti sono, nelle varie carte, comunque i medesimi. C’è poi qualcosa di più oggi, che Antonio Cassese, scomparso troppo presto, non ha potuto toccare con mano. Le urgenze del cambiamento climatico, grazie alle quali capiremo molto presto, se già non lo abbiamo fatto, che tutti noi appartenenti alla famiglia umana siamo in realtà una unica «societas». Nonostante le divisioni e i conflitti terribili che ancora oggi viviamo, chissà che l’ideale non arrivi a realizzarsi prima di quanto pensasse il nostro ex allievo Antonio, che oggi, riflettendo su questi temi, è giusto ricordare. —