la Repubblica, 27 dicembre 2022
Mamma e papà restano. Almeno sulla carta di identità
Regalo di Natale per le famiglie Lgbt+. Regalo amaro: sulla carta d’identità resta l’abbinata madre/ padre. Firmato: il governo. Dopo la sentenza del tribunale di Roma, che un mese fa ha riabilitato la vecchia dicitura, genitore 1/genitore 2, l’esecutivo ingrana la retromarcia. E fa un po’ finta di niente. La decisione è maturata sull’asse Viminale- ministero per la Famiglia. Obiettivo: lasciare tutto com’era prima del verdetto dei giudici. Com’era stato messo nero su bianco, cioè, nel decreto Salvini del 2019. Lo conferma aRepubblica la ministra Eugenia Roccella, titolare del dicastero della Famiglia e delle Pari opportunità nel governo Meloni. «Si è fatto tanto rumore per quella decisione – dice Roccella – ma si tratta di una sentenza individuale, dunque vale per la singola coppia che ha fatto ricorso». Per tutte le altre no. Sulla carta d’identità, aggiunge la ministra, «rimarrà scritto madre e padre». E le coppie formate da due mamme o due papà? «Possono sempre fare ricorso». Con tutti i rischi annessi e connessi. Per esempio: l’esito imprevedibile della contesa legale, perché ogni giudice può decidere in un senso o all’opposto. E soprattutto con la certezza di spese tutt’altro che modeste. Per questo genere di pratiche tocca sborsare dai 6mila ai 12mila euro, spiega Alexander Schuster, avvocato in decine di cause per conto di famiglie Lgbt. «La strategia di Roccella – sostiene Schuster – è intelligente, perché in questo modo tre quarti delle coppie omogenitoriali lasceranno perdere».
Certo, c’è sempre qualche trucco per dribblare l’imposizione del Viminale senza passare dall’avvocato. Ma bisogna trovare l’ufficiale di anagrafe compiacente. «Il decreto Salvini del 2019 – racconta Schuster – è valido per le carte d’identità elettroniche. Non per quelle cartacee, vecchio modello, che ancora oggi possono essere rilasciate in casi particolari, per esempio se c’è l’urgenza di un viaggio imminente». Ma appunto è fondamentale incappare nell’impiegato comunale disposto a chiudere un occhio. «Un funzionario che preferisce accondiscendere a un falso minore, un’urgenza inventata, piuttosto che certificarne uno decisamente più grave: cioè iscrivere al ruolo di padre una donna». Perché con la forzatura del 2019 anche questo succede: mamme che diventano papà e papà che passano da mamme. Proprio per ovviare a paradossi di questo tipo il giudice, dando ragione a una coppia di Roma, ha condannato la «rappresentazione alterata, e perciò falsa, della realtà» consentita dal decreto, paventando «gli estremi materiali del reato di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico». Roba da codice penale.
Al momento della sentenza, il 16 novembre scorso, il governo storse il naso. Palazzo Chigi parlò di «evidenti problemi di esecuzione». Salvini naturalmente s’indignò a mezzo social: «Illegali o discriminanti le parole “mamma” e “papà”? Le parole più belle del mondo? Non ho parole, ma davvero». Ora arriva la conferma. Il governo non cambierà i moduli. Non cambierà i software per stampare la carta d’identità. L’unica via per arrivare a un verdetto che valga per tutti è una class action – «col rischio di sparare contro i mulini a vento, perché le class action nel nostro Paese sono ancora terreno vergine», conclude Schuster – oppure una segnalazione alla Commissione Ue per violazione delle norme sulla privacy, che tutelano il diritto al trattamento corretto dei propri dati, o per l’irregolarità dei documenti di viaggio. Ma la strada è appunto tortuosa. L’attesa del verdetto rischia di essere lunghissima. Nel frattempo, chi ha tempo e denaro per un ricorso, può provarci. Anche se perfino spuntarla davanti al magistrato rischia di rivelarsi inutile. «Non è cambiato nulla – racconta Sonia, una delle due mamme che hanno vinto il ricorso a novembre – L’anagrafe del Comune ancora non ci ha consegnato la carta d’identità, perché il Viminale non ha cambiato i moduli. Siamo sconfortate, ci sembra di essere tornate alla casella di partenza».