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 2022  dicembre 27 Martedì calendario

Intervista a Sebastiano Mondadori

Un libro può essere un atto di risarcimento, un modo per afferrare il tempo per le corna: ora mi segui, sono io che comando. La biografia di Sebastiano Mondadori, Verità di famiglia. Riscrivendo la storia di Alberto Mondadori (La nave di Teseo), fa rivivere la figura del nonno, un imprenditore sognatore dedito a una grandeur dissipativa e geniale. Un Gatsby dell’editoria che ha giocato d’azzardo con le sue passioni. Erano altri tempi, certo, una stagione d’oro per i libri: «Ho consultato moltissimi documenti e mi sono affidato ai ricordi, soprattutto di mia madre Nicoletta. Condividiamo il confronto con una storia che non vogliamo dimenticare. Il mio sguardo è rimasto ancorato alla fascinazione di un ragazzino cresciuto con il mito del nonno, coltivando l’idea che la sua fosse la storia di un vinto».
E invece?
«Non è stato solo un perdente.
Alberto è stato uno dei grandi protagonisti dell’editoria novecentesca, prima alla Mondadori e poi con il Saggiatore.
La sua idea era neoilluminista, teneva insieme una cultura elitaria e una cultura inclusiva. Credeva che i libri potessero educare le persone e cambiare la società».
Un progetto pedagogico vicino a quello di Giangiacomo Feltrinelli e Giulio Einaudi.
«Alberto aveva però un approccio non ideologico, che univa diverse visioni del mondo, dal marxismo allo strutturalismo alla fenomenologia. La convivenza della Mondadori paterna col fascismo costituì un grande problema per lui, tanto da spingerlo a ritagliarsi il profilo di editore di sinistra. Col Saggiatore sentì il bisogno di un cambio di marcia e di una svolta verso la saggistica, verso un umanesimo scientifico.Un’apertura che ha avuto il merito di sprovincializzare la cultura italiana guardando oltre l’Europa, alla civiltà orientale e al Sudamerica».
Piazzò un colpaccio con “Tristi Tropici” di Lévi-Strauss.
«Ancora oggi un longseller. Ma citerei anche Il secondo sesso di Simone de Beauvoir e Maschio e femmina di Margaret Mead, un libro bellissimo sulle abitudini sessuali negli anni ’50. Il catalogo Saggiatore era frutto di una visione, aveva una forte identità, ma non dimentichiamo che anche per Mondadori Alberto aveva creato collane importanti, tra cui lo Specchio e selezionato i primi cento Oscar, insieme a Vittorio Sereni».
Qual è stato il suo ruolo nella bocciatura del “Gattopardo”?
«Non fu lui a cassarlo ma Vittorini.
Il libro non convinceva neancheArnoldo, che lo riteneva fuori dal tempo. Alberto seguì da vicino la laboriosa pubblicazione dell’ Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Le sue delusioni semmai furono altre: gli sfuggì Gadda, dopo un tira e molla durato anni, e rimase male per Anna Maria Ortese che aveva sostenuto quando lei non aveva una lira».
Con Sartre e de Beauvoir erano molto amici?
«Con Sartre si erano conosciuti nel 1946, ai tempi mondadoriani.
Sartre è stato uno dei numi tutelari del Saggiatore. Trascorrevano ore a parlare di politica. Durante un volo verso Mosca per un congresso di scrittori, erano così immersi in una discussione da non accorgersi che una bufera li aveva costretti a dirottare verso Leningrado.
L’altro nume è stato Giacomino Debenedetti, fondamentale nella creazione del Saggiatore, che debuttò imbarcando Faulkner e Thomas Mann».
Il rapporto con Debenedetti a un certo punto si interruppe, come mai?
«La fine delle grandi amicizie, non solo Giacomino ma anche Remo Cantoni e Enzo Paci, è un capitolo oscuro della vita di Alberto. Sono state chiusure drammatiche, molto dolorose. Dalle lettere è evidente il voltafaccia di Alberto, che forse non riusciva più a sostenere il peso del passato e aveva bisogno di cercare nuove avventure con compagni diversi. È stato un suo grande errore. Grazie a Giacomino era nata la Biblioteca delle Silerchie, l’anima letteraria del Saggiatore, una collana unica a partire dalle copertine di grafica astratta. Ogni libro – mai più di 100 pagine – aveva una breve introduzione di Debenedetti.
Giacomino conosceva perfettamente la psicologia di Alberto in cui convivevano fragilità e grandezza e quel senso disperato di affermazione che lo avrebbe inseguito tutta la vita e gli sarebbe stato fatale».
Un’inquietudine dovuta al confronto complicato col padre?
«Gli stessi psicoanalisti a cui Alberto si rivolse nel tempo erano d’accordo: alla base c’era un senso di inadeguatezza nei confronti di Arnoldo. La balbuzie di cui Alberto soffriva procedeva insieme alla sua insicurezza, tornando fuori in modo prepotente quando si sentiva più fragile. Il loro è stato uno scontro tra due visioni geniali, da una parte l’imprenditore e dall’altra l’intellettuale. Alberto ha tentato a lungo di sfuggire al destino paterno, inizialmente lavorando nel cinema col cugino Mario Monicelli, poi nei giornali».
Più volte Arnoldo lo finanziò.
«Costantemente».
Soldi che forse hanno contribuito a non farlo sentire mai completamente libero.
«È un’interpretazione corretta. In una lettera chiedeva al padre 50 milioni di lire senza doverli restituire, “se no siamo punto e a capo”. Quando il padre diceva no, andava dalla madre che gli passava i soldi sottobanco. Il rapporto con lei, testimoniato dal carteggio, era bellissimo. Lui le confidava ogni cosa, pure che si sentiva brutto, e Andreina lo metteva al corrente anche dei suoi patemi coniugali».
Tra le altre cose Arnoldo aveva finanziato il restauro faraonico della villa di Camaiore in stile hollywoodiano.
«Per Arnoldo e Andreina quel restauro fu un’onta, ci avrebbero messo piede due o tre volte senza mai lasciarsi fotografare. Bisogna considerare che Arnoldo era nato in una famiglia poverissima della Bassa mantovana e con la licenza elementare aveva messo su una tipografia trovando finanziatori grazie alla sua enorme capacità incantatoria».
La diversa origine sociale ha influenzato il loro modo di fare gli editori?
«Due stili diversi: Arnoldo preferiva una struttura verticistica, Alberto il lavoro di squadra. Arnoldo fiutava i libri, Alberto se ne nutriva. Era lui il referente degli autori. Trascorreva vacanze e bevute con Hemingway e Kerouac, giornate con Thomas Mann e Orson Welles. Di notte leggeva. Quando viaggiava, come quella volta in Russia, prendeva una suite ulteriore per le valigie di libri. Uno slancio al quale Arnoldo guardava con ammirazione ma con un certo scetticismo, attento com’era a far quadrare i conti».
Alberto era un anticonformista con i soldi?
«Ha pagato la sua incollocabilità: era inviso all’establishment perché sperperava i suoi soldi per fare l’editore di sinistra ed era guardato con sospetto dalla sinistra perché era comunque un padrone.
Quando il padre gli fece togliere il fido bancario fu costretto a vendere le sue azioni Mondadori per liquidare i 149 dipendenti del Saggiatore. Nel 1969, la sede della sua casa editrice era stata occupata dagli studenti, additata come imperialista. Per Alberto una tragedia. Tra l’altro il suo mondo stava crollando sotto le note di Azzurro».
Cioè?
«Il clan di Celentano stava registrando proprio sotto la casa editrice, a due passi dall’università Statale. Gli altri editori si schierarono dalla parte degli studenti. Un altro colpo mortale».
Sette anni dopo Alberto muore, provato dall’alcolismo.
«Muore a 61 anni, di colpo vecchissimo. Era affondato senza essersi reso conto di essere sul Titanic».
Come mai secondo lei è stato dimenticato?
«In genere non si perdona chi fallisce, soprattutto in Italia. O forse semplicemente non gli è stato perdonato di aver sperperato molti soldi».