Estratto dell’articolo di Paolo Mastrolilli per www.repubblica.it, 26 dicembre 2022
PER UN PUGNO DI GHIACCIO SCIOLTO – IL RISCALDAMENTO GLOBALE STA SCIOGLIENDO L’ARTICO. E GIÀ È SCATTATA LA BATTAGLIA PER LA CONQUISTA DELLE TERRE EMERSE E DELLA ACQUE DIVENTATE NAVIGABILI, PREZIOSE SIA DAL PUNTO COMMERCIALE CHE MILITARE – LA RUSSIA VUOLE APPROFITTARE DEL SUO VANTAGGIO GEOGRAFICO, GLI STATI UNITI SONO IN RITARDO MENTRE LA CINA PUNTA A CREARE UNA “VIA DELLA SETE POLARE”... -
La battaglia è cominciata e gli Stati Uniti sono già in ritardo, titola il sito “Politico”. Non si riferisce però all’Ucraina, dove anzi la catastrofe strategica di Putin si rivela ogni giorno sempre più sorprendente, ma all’Artico, nuovo centro dell’attenzione per lo scontro fra potenze vecchie, nuove ed emergenti.
Il riscaldamento globale infatti lo sta rendendo sempre più accessibile, tanto dal punto di vista commerciale, quanto da quello militare, e la Russia vuole approfittare del suo vantaggio geografico per bilanciare l’inadeguatezza dimostrata sugli altri fronti della sfida geopolitica globale lanciata dalle autocrazie contro le democrazie. […]
[…] I mutamenti climatici, che hanno accelerato lo scioglimento dei ghiacci, squagliando quelli che coprono il mare Artico al ritmo del 13% ogni decennio. Di questo passo ne sarà completamente libero entro l’estate del 2035, secondo gli esperti sentiti dal National Geographic. Ciò vuol dire che la “Northern Sea Route”, o “Transpolar Sea Route”, diventerà facilmente accessibile per i cargo, il trasporto di energia, e magari il turismo.
Lo stesso discorso vale anche per le forze armate, che potranno muoversi e stabilirsi nella regione più facilmente. L’altra faccia della medaglia è che lo scioglimento del permafrost renderà inabitabili i pochi centri urbani esistenti, ma anche le basi militari, rendendo necessari interventi per ripararle o spostarle.
L’ultimo fattore di cambiamento è la guerra in Ucraina, che sta praticamente portando alla rinuncia dell’energia russa da parte dell’Europa. Ma siccome finora gas e petrolio prodotti da Mosca in queste regioni salpavano in larga parte verso il Vecchio continente, adesso il Cremlino sarà costretto a riorientare l’intero traffico verso Oriente, Cina e India in particolare, ammesso e non concesso che abbia le risorse economiche per farlo, e la possibilità di piazzare sui nuovi mercati tutto quello che vendeva ai vecchi. […]
La Cina vorrebbe lanciare la sua “Polar Silk Road”, la Via della seta polare, ma la Russia da una parte ha bisogno dei suoi finanziamenti, e dall’altra non vuole finire nella “trappola del debito” di Pechino. Le importazioni di gas russo liquefatto verso la Repubblica popolare sono aumentate del 50%, però fra le consegne fatte nel 2020 solo 33 sono andate in Asia, contro le 250 in Europa. Tra 2016 e 2019, secondo “The Diplomat”, 570 cargo sono salpati dai porti russi dell’Artico verso l’Europa, contro 124 andati in Asia.
Dunque il divario da colmare resta enorme, ma in qualche modo andrà affrontato, perché il 10% del pil di Mosca e il 20% delle sue esportazioni vengono dalle regioni artiche. A questi interessi economici ovviamente ne corrispondono altrettanti strategici, tanto per proteggere le rotte di navigazione, quanto per imporre il dominio su una regione che sta diventando accessibile come mai prima.
Gli equilibri nella zona sono regolati dall’Arctic Council, ma da quando Putin ha invaso l’Ucraina i sette membri occidentali, ossia Usa, Canada, Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca e Islanda, hanno praticamente interrotto i contatti con la Russia. Che viste le difficoltà incontrate contro Kiev, sta utilizzando pure questo fronte per cercare di creare distrazioni ed imporre una qualche forma di superiorità, allo scopo di bilanciare le debolezze messe in mostra altrove.
A gennaio, per esempio, un cavo sottomarino per le comunicazioni tra le isole Svalbard e la Norvegia è stato tranciato. Le autorità di Oslo hanno determinato che il danno era stato provocato da qualche strumento di fattura umana, e hanno fermato l’unica nave presente in zona al momento dell’incidente, un peschereccio russo. Però l’inchiesta non è riuscita a dimostrare la sua responsabilità e quindi equipaggio e imbarcazione sono stati rilasciati. [...]
Il vantaggio russo La potenziale sfida bellica è ormai evidente, ma il problema è che Mosca ha un vantaggio accumulato dalla Guerra fredda. Nella zona incrocia la sua Seconda Flotta, con i sottomarini atomici, e di recente ha condotto esercitazioni nucleari. Nell’Artico russo vivono 2,4 milioni di abitanti, ossia la metà della popolazione totale dell’intera regione, dove il Cremlino controlla il 53% delle coste. Ogni anno 18.000 persone vanno via, ma tre quarti del bilancio della difesa sono indirizzati all’espansione militare in questa area, tanto che negli ultimi otto anni Mosca ha riaperto o ammodernato circa 50 basi dell’epoca della Guerra Fredda.
Gli Usa invece hanno cinque basi in Alaska e una in Groenlandia, la Thule Air Base. Gli americani possiedono due navi rompighiaccio e il Canada 18, contro le 50 dei russi. Qualcosa però si sta muovendo a Washington, perché il dipartimento di Stato ha appena rilasciato la nuova National Strategy for the Arctic Region. In Alaska il Congresso ha finanziato la costruzione di un porto in acque profonde a Nome, ne sta considerando un altro a Barrow, e medita di riaprire la base di Adak dei tempi della Guerra fredda. La sfida è cominciata ed è destinata solo ad accelerare.