Tuttolibri, 24 dicembre 2022
La fine di Hitler
Perché è nella rovina che si distinguono gli insegnamenti della Storia. Perché Adolf Hitler incombe ancora sulle nostre coscienze e addirittura suscita attrazione. Perché Volker Ullrich, nella sua maestosa opera Hitler. La caduta 1939-1945 (Mondadori, pp. 768, € 100), secondo volume di una biografia che ha l’ambizione di essere definitiva, scolpisce quella frontiera tra la civiltà e la barbarie necessaria per illuminare l’abisso del nazismo e per accompagnare chiunque nella conoscenza della II guerra mondiale.Lo storico e giornalista tedesco raccoglie 80 anni di studi, li compara, li approfondisce, li costruisce in un unico e lineare discorso. Questa mole immane di documenti gli consente di indagare ogni istante degli ultimi anni di vita del dittatore, di spiegarne l’aggressione alla libertà e al mondo. Anche di correggere sparute zone d’ombra, persino alcune delle meticolose ricostruzioni di una fonte primaria come Trevor-Roper: no, l’aiutante von Below non aveva nessun ultimo messaggio segreto di Hitler per Keitel, come aveva millantato dopo la cattura. Dettagli, certo, che però fanno comprendere la profondità del lavoro.Oltre la sintesi manualistica, Ullrich sviluppa una vasta e trasversale analisi sulla persona. Hitler che legge Pearl Harbor come un evento a suo vantaggio e non come una tragica svolta, che ordina la soppressione dei disabili e dei malati, che imposta l’assedio razzista e di sterminio all’Unione sovietica, che ha l’ansia di imbattersi come la madre in una morte precoce. Hitler che ordina in prima persona il genocidio degli ebrei e dei soldati nemici, pur senza mai firmare un ordine preciso; che alla follia affianca in ogni caso una dote organizzativa che le biografie hanno sempre messo in un angolo.Nelle decisioni di Hitler prevale sempre l’impulsività e il bullismo, in fin dei conti la volgarità che lo ha sempre contraddistinto. Il suo governo ha soli due timbri: l’euforia o la disperazione, impressi però sempre nel sangue degli altri. Il crollo, secondo Ullrich, ha una data d’inizio ed è il 50esimo compleanno del Führer, quando una Germania solo apparentemente colossale e florida, invece clamorosamente vicina alla bancarotta a causa delle spese militari e propagandistiche del governo, aveva bisogno di un cambio di passo. Hitler vede il fallimento e individua la guerra immediata come un cinico darwiniano medicinale a buon prezzo, per rimettere in moto lo sviluppo e scaricare tutti i costi sulle popolazioni conquistate. Il libro sforna un’incessante narrazione militare, segnata dagli azzardi e dal fanatismo. Dopo una breve stagione di vittorie, il tracollo si materializza subito e già nel 1941 ogni parametro indica chiaramente la disfatta. La quantità di menzogne che Hitler ha riversato sui tedeschi non consente altra via d’uscita se non quella del suicidio e della distruzione del cadavere: «Non restò molto dell’uomo che pensava di dominare il mondo».Ullrich si pone dunque la domanda fatidica. Spogliato dai suoi orrori Hitler è da considerare un grande della Storia? E la risposta, argomentata con ingombranti confronti tra uomini del passato, non può che essere negativa: «Perché Hitler era grande solo nel distruggere, nella mostruosità dei suoi crimini». E non avrebbe mai trovato la forza di redimersi.