la Repubblica, 24 dicembre 2022
Sofia Goggia: «Sono la numero 1»
Cosa unisce una Bentley verde, Aristotele, la casa di Giorgio Armani, una maglietta sudata, la pista Corviglia di St. Moritz e Bruce Springsteen? Tra i miliardi di risposte possibili, ce n’è una sola giusta: Sofia Goggia. Ogni estate si spera che sia arrivato l’anno della stabilità, dei risultati senza conseguenze, ma anche questa volta lei si è superata: il weekend in Svizzera, culminato nella vittoria in discesa con la mano sanguinante operata il giorno prima a Milano, è stato uno dei capitoli più estremi della sua saga. Lo spettacolo e il coraggio come vocazione, e i Mondiali di febbraio che sembrano lontanissimi con tutto questo carico di thriller che ogni sua discesa trascina con sé.
Sofia, c’è altro da aggiungere alla letteratura di quelle giornate?
«Eccome. La nebbia, che ci pianta a Lecco mentre andiamo a Bresso in elicottero. Subito dopo, ho la sensazione di stare in un film».
Cosa è successo?
«Viene a prenderci un signore molto vicino a Giorgio Armani, e cosa guida? Una Bentley verde».
Potenza di Sofia Goggia.
«Beh, devo ringraziare Cristina Turrini, capo sala della Madonnina.
Ma non è mica finita. Quando mi mostrano un’altra macchina per il viaggio di ritorno dico: “ma con questa non arriviamo mai”. Andiamo a casa di Giorgio Armani, dove mi aspetta una Range Rover, e visto che c’ero mi invitano a entrare».
Che onore.
«Ma come vi sentireste in casa Armani con scarponcini, calze da sci, calzamaglia, maglietta usata la mattina in gara, un pile scrauso, mi dico “chissà che cosa penserà di me”. Ma è andata, lo incontro in uno stato pietoso. La sera sono a St. Moritz a mangiare riso in bianco. La mia vita è un film, non capisco più niente».
Sembra che giochi una partita col destino, ma vince sempre lei.
«Ci sono tanti atleti che nel corso della carriera non si fanno mai male, altri invece sono sfortunati. Il mio percorso è bizzarro, perché io sono così, bizzarra. Se devo fare un incidente in macchina, mi cappotto e vado a finire su un furgone parcheggiato nella strada più in basso, come nel 2019. Mi rompo una mano, mi opero, faccio la gara il giorno dopo, vinco, non dormo la notte, la domenica faccio il superG.
Ma chi me lo fa fare di andare disfatta il lunedì a Roma a sostenere l’esame all’università? Mi fa più paura quello, che una discesa col bastoncino attaccato alla mano con lo scotch».
Tra dieci anni come si vede senza tutta questa adrenalina?
«Non sai mai cosa ti riserva la vita. La mia è molto intensa, l’intensità è una condizione esistenziale, io lo sono in tutto quel che faccio, sennò rinuncio. È il mio modo di fuggire da mediocrità, superficialità. Ci sono campioni che non emozionano, altri che vincono meno ma riservano emozioni forti».
Il termine Wild le corrisponde?
«Io sono sempre wild, selvaggia.
Come ci diciamo col mio amico Ferdi del liceo,stay wild ma mìa tròp ,ma non troppo in bergamasco. Selvaggia il giusto».
Attorno a sé le fa piacere avere persone che parlano bergamasco,
come il suo tecnico Luca Agazzi e lo skiman Barnaba Greppi.
«Non era Bruce Springsteen a parlare di origini, del desiderio di portarle con sé nel mondo? Avere radici forti, ma anche ali per volare. Il radicamento è fondamentale. Sul mio casco c’è lo skyline di Bergamo, ovunque vada dico, che so, “bello Lake Louise, ma le Orobie di più”. Qui ho il mio cane, i boschi, la messa alle 18, il bar, la gastronomia che fa i casunsei a mano, l’edicolante Marco col giornale cartaceo. I posti dove vive la Sofia fanciulla, che ho bisogno di recuperare e tenere stretta».
La sua ricostruzione fisica e psicologica dopo il recupero per le Olimpiadi di Pechino è passata per l’Argentina, dove ha svolto la preparazione estiva: l’ha emozionata il Mondiale di Messi?
«Me gusto mucho Ushuaia, y toda la gente argentina .
Ho fatto una vacanza indimenticabile, le canoe, la Quebrada de Humahuaca.
L’Argentina è una terra magica».
Il cambiamento climatico vi spingerà sempre più verso l’inverno sudamericano?
«In estate sciare è diventato impossibile, in futuro i ghiacciai si scioglieranno ed è possibile che si emigri. Noi viviamo in prima fila questo fenomeno, ho appena firmato una collaborazione con Deloitte suitemi del cambiamento climatico».
Perché studia Scienze politiche?
«È un percorso di studi che ti dà una cultura a 360° su storia, filosofia, politica, diritto, economia. Per storia delle dottrine politiche, che ho sostenuto lunedì, avevo preparato Platone, ma sabato in elicottero mi sono venuti in mente gli organicisti, secondo i quali il tutto viene prima delle parti, e Aristotele che parla del piede e della mano che non sono nulla senza il corpo. Quindi, io mi ero appena fratturata, e ho pensato che anche senza la funzione della mano avrei potuto avere un buon risultato. A quel punto mi sono ricollegata a Machiavelli, e al suo Principe che cavalcando gli eventi imprime il suo segno sulla storia. La volontà di eccellere prevale sulle mancanze della complessità corporea».
Federica Pellegrini…
«Sono andata a cena con lei a Verona, parliamo la stessa lingua».
La lingua delle campionesse?
«Sì».
È stato il primo anno senza Pellegrini, Paola Egonu non ha vinto il Mondiale, Benedetta Pilato è molto giovane: ora è lei la numero 1 dello sport italiano?
«Lo sono. Ho vinto le Olimpiadi, sono nella storia in una prova pazzesca come la discesa. Ho fatto imprese incredibili, come a St. Moritz».
Le pesa?
«Sono come sono, e mi prendo le mie responsabilità».
Qualche volta la ricerca del successo a ogni costo porta a storture come nella ritmica.
«Si sapeva di allenatori che abusano in quel mondo, le prime a parlarne sono state le americane. Sono rimasta dispiaciuta, ma non stupita: vessazioni e violenza psicologica sono alla base dei metodi di tanti allenatori che dovrebbero essere educatori, invece distruggono vite in una fase di sviluppo. Per fortuna sono sempre stata cicciottella, mia madre mi teneva a dieta, faccio uno sport dove non devi essere perfetta al grammo».