Corriere della Sera, 24 dicembre 2022
Pollini: torno a suonare per Beethoven
Schivo e riservato Maurizio Pollini, sommo interprete del pianoforte, leggendario anche per i suoi silenzi. Ostinati al punto di svelare talora più di quello che qualsiasi parola potrebbe. Così, se gli chiedi conto di questo annus horribilis per il mondo intero, e un poco anche per lui, colpito la scorsa estate da un malore prima di andare in scena al Festival di Salisburgo e poi costretto a cancellare gli impegni successivi, si limita a accennare un sorriso, sofferto e sereno come le Onde scritte per lui dell’amico Luigi Nono.
«Adesso è passato, sto bene, mi sono ripreso, tutti i prossimi impegni, il 3 febbraio alla Philharmonie di Parigi, il 13 alla Scala, sono confermati. E spero di recuperare anche il concerto di Chicago con Muti che mi stava tanto a cuore. La rinuncia più dolorosa, ma in quel momento non potevo fare altrimenti. La vita è come la musica, alterna momenti di gioia, speranza e disperazione».
Una formula che ben si addice a quel monumento del pianismo che è la Sonata 106Hammerklavier di Beethoven, che lui interpreta con la 101 nel cd appena uscito da Deutsche Grammophon. «Dopo le tre, opp. 109, 110, 111, uscite nel 2019, queste due completano la mia rilettura delle ultime cinque Sonate, le più audaci e innovative. Ciascuna è un mondo diverso, un unicum. Tra tutte, la 106 è più complessa, la più grande».
Così impervia da venir giudicata ineseguibile. «Darà filo da torcere ai pianisti quando la suoneranno tra 50 anni» aveva predetto Beethoven. «A osare per primo nel 1835, 15 anni dopo la pubblicazione, fu Liszt. Io, dopo averla affrontata negli anni ’70, l’ho suonata mille volte, e ogni volta si è aggiunto qualcosa. La Hammerklavier ha tante anime, tanti contrasti. Tre tempi di tonalità aperta, spezzati da un Adagio tormentato. Beethoven, il grande rivoluzionario della musica, l’ha composta al termine della vita, quando era sordo. L’ha scritta con l’orecchio interiore. Una visione intima, profonda, che svela il suo autore. E svela anche un po’ di me. Se affrontarla a 30 anni è stato un atto di audacia, a 80 lo è ancora».
Il 5 gennaio saranno 81. Come sempre li festeggerà con sua moglie Marilisa e suo figlio Daniele, compositore e pianista con cui si è cimentato in un incontro ravvicinato alla tastiera, la Fantasia a 4 mani di Schubert. «Ma adesso sto studiando Bach, il Secondo libro del clavicembalo ben temperato, più moderno, più vario del primo. Vorrei suonarlo tutto in una sola sera».
Nel frattempo ha ascoltato e apprezzato il Boris Godunov scaligero. «È nel mio cuore dai tempi di Abbado. Un’opera meravigliosa e disperata. Dentro c’è il destino del popolo russo, di nuovo messo alla prova dalla prepotenza di un uomo. Ma Putin dovrà cedere. Per quel che mi riguarda, non sono più tornato a suonare in Russia da quando c’è lui. Bene ha fatto la Scala a proporre Boris, il suo messaggio vale più di un libro di storia». Netto anche il giudizio su chi auspica sovrintendenti solo italiani. «Quel che serve sono personalità autorevoli, l’italianismo qui è fuori luogo. Forse ci si dimentica che siamo in Europa. Certo, quando c’era Draghi mi sentivo più tranquillo».
Un augurio per i giovani? «Che siano più consapevoli e partecipi. Il pianeta sta andando a pezzi, glielo stanno togliendo da sotto i piedi. Una ragione per svegliarsi».