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 2022  dicembre 24 Sabato calendario

Il presepe dei Pupi che narra l’umanità

E c’è Burliante il re di Soldanella e Uggero il Danese marito della principessa Almerina e Tuttofuoco il mago pagano che comanda il Diavolo Testa di Bue e poi Agramonte che è figlio di Bernardo di Chiaramonte e sposa la regina Lucietta d’Orsitania e hanno due gemelli e il primo Onofrio sarà Malagigi e il secondo Bernardo prenderà il nome di Viviano...
Non si sbaglia mai? Mai un vuoto di memoria? Mai un lapsus? «Mai», ride Mimmo Cuticchio, il geniale Maestro dei Pupi laureato ad honorem un mese e mezzo fa dall’Università Roma Tre in Teatro, musica e danza e famoso come «Uomo Unesco» rappresentando l’Opera delle antiche marionette siciliane protette come «patrimonio orale e immateriale dell’umanità». D’altra parte, spiega, «tutti fratelli miei sono. Mio padre diceva che “in famiglia eravamo settecentosette: sette fratelli e settecento Pupi”». Ammette che sì, certo, a 74 anni, nella vita quotidiana, qualche vuoto nella memoria lo può pure avere «ma non sui nomi e i ruoli dei Pupi perché gli spettatori magari no, non se ne accorgerebbero ma loro, i Pupi, non me lo perdonerebbero mai. Né mi perdonerei io».
Per questo oggi e domani, nel Teatro di via Bara all’Olivella di Palermo, il mattatore che è riuscito a portare l’Opera dei Pupi e il Cunto in tutto il mondo superando ogni barriera linguistica («In Giappone un maestro di arti marziali trovò un legame tale tra come batto il ritmo io col bastone e lui con la katana che me ne regalò una») ha riunito le sue marionette in un presepe unico intorno al Bambineddu, la Madonna, San Giuseppe, il bue e l’asinello, compresi i Re Magi, in questo caso i fratelli spagnoli Marsilio, Bulugante e Falserone. «Tutti insieme, pagani e cristiani. Per ricordarci come, soprattutto oggi, sia importante la pace».
Certo, non potranno mancare spunti sui celeberrimi combattimenti che con lo sferragliar di spade stregarono vecchi e bambini: «Abbassanu li visiere, / isanu li lanci, puncinu i cavaddi / e currinu unu di fronte all’avutru...». Il tema dominante, però, sarà la Natività richiamata nello stesso Ciclo dei Paladini di Francia che il padre di Mimmo, Giacomo, puparo in senso stretto (costruttore di Pupi) e teatrante viaggiante, portava in giro per le contrade siciliane costruendosi in questo o quel borgo, a seconda che fosse estate o inverno, un teatrino-palcoscenico stagionale dove moglie, figli e parenti dormivano, mangiavano e rappresentavano tutte le sere una puntata della interminabile maratona cavalleresca.
«Il ciclo carolingio, ho ancora i manoscritti di mio padre, se ne portava via 371 di serate. Per finirlo dovevamo tornare, intervallando le stagioni, per quattro o cinque anni. E la gente s’affezionava tanto che una notte, mentre tutti dormivamo tra le marionette, bussò alla porta un uomo che piangeva a dirotto. Era don Calorio che ogni sera si portava la sedia da casa (c’erano ragazzi che si caricavano sulla testa anche dieci sedie dei parenti) perché usciva pazzo per Rinaldo e non si dava pace che la puntata fosse finita col suo Rinaldo crollato a terra e prigioniero della maga Gabina». Per restituirgli la serenità Giacomo dovette portarlo davanti al boccascena e mostragli l’amato Pupo indenne: era appeso lì pronto per tornare in scena.
Era un’Italia povera. Dove i braccianti e le famiglie non potevano neppure pagarsi il biglietto: «C’erano paesi dove proprio non circolava moneta. Qualcuno portava un pollo, altri della verdura dell’orto, una ricotta o un pezzo di cacio...». Quanti spettatori venivano? «Tutto il paese veniva». Perfino la sua nascita, racconta Mimmo in Alle armi, Cavalieri! (Donzelli, 2018) fu un pezzo di teatro: «La sala era già strapiena quando mia madre iniziò ad avere le doglie; mio nonno fece allora uscire tutti, mandò a chiamare la mammana e fu preparato il letto per il parto. (...) Finalmente, all’alba del 30 marzo, nascevo io. “Giacumè, ti nasciu u masculiddu, sì cuntentu?”, disse mio nonno. E mio padre: “Certu ca sugnu cuntentu, mi dispiaci sulu ca mi fici perdiri l’incasso della serata!” Cominciai a sentire parlare di Orlando e Rinaldo quando ancora stentavo a pronunciare le parole mamma e papà».
Finché anche nei paesi più fuorimano arrivò il cinema: «Mio padre un giorno si comprò due proiettori, marca Ducati 16 mm. Lo schermo era la parete di una casa e io, ragazzino, giravo col trombettone: “Domenica veniti tutti acca’. Il film La figlia del mendicante mettiamo! Non si paga niente, un’offerta volontaria, però portatevi la sedia da casa!” Prima del secondo tempo raccoglievamo le offerte». Quando in molte case e nei bar arrivò la tivù, fu la fine. L’ultima rappresentazione del Ciclo viaggiante fu a Cefalù nel 1969: «Avevano aperto il Club Mediterranée, i paesani pagavano 300 lire, i turisti anche 1.000. Mio padre, dopo tanti anni di fatiche, capì che poteva avere un pubblico diverso. I turisti non capivano il parlare ma erano affascinati dalle azioni, lui scelse di accontentarli introducendo magari colpi di scena che non c’entravano, tipo uccidere qualche serpente o far uscire il diavolo. Io scelsi di tirare diritto. Andai a Parigi, studiai altre strade, mi costruii con altri maestri i “miei” Pupi per salvare il più possibile di quel poema epico».
E se il padre-maestro chiudeva l’anno il 24 dicembre con la fine di Orlando (il Pupo più amato che con Rinaldo «faceva calare la pasta», cioè dava da mangiare a tutti) e il 25 ripartiva col Bambineddu, lui ha deciso di puntare su una Natività diversa. Più «laica». Riprendendo le storie di tanti Pupi nati anche loro da «madonne» speciali in una grotta, una stalla, un rudere circondati dai compagni di sempre, asini, vacche, pecore... Con l’aggiunta, si capisce, dell’immancabile drago. A partire dallo stesso Orlando la cui madre Berta (sorella di Carlo Magno, in fuga dai sortilegi di Giliana, la figlia del mago Merlino che si era invaghita di Milone che di Berta era il marito) incontrò in un bosco un pastore che l’accolse come una figlia nel suo rifugio («Vivo in una grotta e sono senza famiglia») dove l’indifesa «in una notte di luna piena partorì un maschietto». Il futuro paladino eroe nella Chanson de Roland morto nel 778 nella battaglia di Roncisvalle.
Un romanzone narrato nei secoli anche coi Pupi e accolto, spiega Mimmo, dalla devozione popolare come quando appariva l’Angioletto a dire: «Ruggiero, Ruggiero, morto tu sei per volere di Dio, faccio un sorriso sul tuo pallido viso, l’anima tua la porteremo lassù nel celeste paradiso». Al che chi riempiva il teatro si toglieva la coppola e si faceva il segno della croce: «Il popolo sapeva che erano marionette, ma non rideva davanti a un racconto religioso, perché davanti alla morte deve esserci pietà. All’Opera dei Pupi non si raccontano le favolette, ma la grande epopea dell’uomo».