Robinson, 24 dicembre 2022
Biografia di Vittorio Gorresio
Il giornalismo giustificato dalla cultura è un cenacolo non poco canforato, una villa palladiana non avara di screpolature. Tra chi lo onorò, Vittorio Gorresio, scomparso giusto quarant’anni fa, poco dopo aver vinto con La vita ingenua il premio Strega. È l’unica sua prova narrativa, il destino di chi – parrebbe – come lui visse in piazza Navona (Indro Montanelli, i racconti Giorno di festa) o che in quella piazza trascorse un giorno speciale (Arturo Carlo Jemolo, sposatosi in Sant’Agnese in Agone, il suo gialloScherzo di Ferragosto), non dimenticando, di Silvio D’Amico, Le finestre di piazza Navona. È un mémoir, La vita ingenua.Nel solco di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Che cosa lo ( li) distingue da una pur egregia “cronaca”? Lo spiegò Cesare Garboli esplorando l’opera della scrittrice torinese: «… quest’uso della memoria in funzione aggressiva e liberatoria. Uno di quei libri in cui si riassumono i nodi di una vita e si chiarisce il sorgere di una vocazione», questi «ricordi “in prestito”, utilizzabili per un investimento nell’immaginario».Nel Ninfeo di Villa Giulia, ricevuto lo Strega, Gorresio canzonò i critici: «Stanno a discutere se La vita ingenua sia o non sia un romanzo. Alla mia età ci si può soltanto commemorare». In realtà le sue pagine hanno il respiro di un genere letterario,iljournal, non proprio in auge nel nostro Paese. Spadolini coglierà nel segno definendolo «uno scrittore per certi aspetti più vicino alla cultura francese che a quella italiana, inscritto in quel filone di diaristi, alla Cajumi, capaci di alternare umori e malumori». Nato per caso a Modena (1910), dov’era di stanza il padre, ufficiale regio, Vittorio Gorresio attraverserà gli anni di prova, infanzia e adolescenza, nel Piemonte dell’albero genealogico, giolittiano e gozzaniano, Cuneo come milieu. È la stessa città di un ulteriore giornalista-scrittore o scrittore-giornalista, Giorgio Bocca, un piccolo mondo antico che risalta fra i luoghi-personaggi di un’opera,Il provinciale, così affine a Lavita ingenua. Sono stendhaliani i rami da cui discende Vittorio Gorresio, il rosso e il nero, militari ed ecclesiastici, dal venerando padre Giovanni Battista, cofondatore dei cosiddetti passionisti, all’abate Claude Gabet che salvò la vita a Napoleone diretto a Milano per proclamarsi re d’Italia, da Gaspare (Gorresio), egli stesso sacerdote, docente di sanscrito, traduttore del poema indiano Ramayana, a un grande soldato di ventura, il generale Benoit Leborgne, che combatté in un reggimento irlandese… Non scordando – et voilà – una trisnonna ghigliottinata a Parigi durante il terrore… Forse va scovata nel focolare domestico la scintilla, per Gorresio, della vocazione giornalistica, in vari fogli testimoniata: dal Messaggero, gli esordi negli anni Trenta, dopo la laurea in Giurisprudenza, alPopolo di Roma con Alvaro, dalMondo di Mario Pannunzio aLa Stampa.Alternando agli articoli – una prosa fondata sul levare, di suadente esattezza – i libri, da una vita di Cavour (“Assolutamente di nessun valore” non esiterà a riconoscere) aIl sesto Presidente, da Risorgimento scomunicato a Il papa e il diavolo,da una biografia di Berlinguer aCostellazione cancro, il cahier della sua malattia. Ebbene, il focolare domestico. Forse a condurre Vittorio Gorresio in redazione ( e nella fazione ghibellina) fu un sussulto di giovanile bastiancontrarismo rispetto al granitico credo di uno zio, va da sé, in talare, «convinto che la stampa appartiene all’ordine del male, e che meglio sarebbe stato per la società se il giornalismo non fosse stato inventato mai». Dall’Africa Orientale (ritraendo il cesareo viceré Graziani) alla vigilia della tedesca «trionfale battaglia di Francia», in una Parigi accademica, da Maurois a Cendrars a Paul Hazard, dalla Germania alla Balcania, com’era chiamata la Jugoslavia smembrata. Ora nella duplice veste di giornalista e di militare, ora solo in divisa grigioverde, Vittorio Gorresio approderà al 25 aprile, sfoggiando un’onorificenza antifascista: licenziato dal Messaggero perché inviso a Mussolini, un grottesco capod’accusa tra gli altri, aver informato Goebbels, nel breve passaggio a Berlino, che l’Italia era contro l’Asse… L’Italia ideale apparve a Gorresio dopo la Liberazione, quando seguì come redattore parlamentare i lavori della Consulta nazionale per Risorgimento liberale: «Mai più da allora mi è poi stato dato di vedere un’assemblea politica così civile. Cortesia e tolleranza erano la regola, e la pazienza degli ascoltatori veramente notevole». La narrazione delle barbe e dei capelli e dei volti in aula profumante di inchiostri classici: «… la satiresca di Emilio Lussu; la pulitissima babilonese barba ovale del conte Carlo Sforza, presidente dell’assemblea. Bellissima mi pareva la canizie del presidente del consiglio Ferruccio Parri, oraziana nel suo candore (Vides ut alta stet nive candidum). Orrendamente bella la grinta di Togliatti, cordialmente borghese Pietro Nenni…». Lo sguardo rivolto alla fontana del Nettuno, ripercorrendo la sua vita ingenua, non genuflessa, Vittorio Gorresio, prossimo al commiato, avrà rispolverato un orgoglio rattenuto, di marca subalpina. A riaffiorare, nitida, l’immagine di sé dodicenne, casa sulla riva destra del Tevere, alla scoperta, alla conquista di Roma: «… passavamo il ponte tutti i giorni per andare a scuola, qualche volta spingendoci fino a piazza Navona…».