Robinson, 24 dicembre 2022
Le lettere di Matisse
Sembra che quando entriamo in un museo ci fermiamo tra i 15 e i 30 secondi davanti ad ogni quadro. Perciò, ogni volta che visitiamo una mostra dovremmo ricordarci queste parole: «Dopo trentasette anni che la possiedo conosco abbastanza bene questa tela, non nella sua globalità, spero; essa mi ha sostenuto moralmente in alcuni momenti critici della mia avventura di artista, vi ho attinto la mia fede e la mia perseveranza; è in questa veste che vi prego di assegnarle il posto che merita, affinché possa donarsi in tutte le sue possibilità». Ecco quanto può essere profondo un quadro. Certo, chi scrive è Matisse, e sta parlando delle Tre bagnanti, un piccolo quadro di Cézanne che aveva acquistato quando aveva trent’anni impegnando unanello della moglie. Lo amava e rispettava così tanto da rinunciarci: nel 1936 lo donò al Petit Palais di Parigi e la frase che abbiamo citato è tratta dalla lettera che lo accompagna al museo. Matisse venerava Cézanne, lo definiva «il maestro di tutti noi». Come lui ha ingaggiato un duro corpo a corpo con la pittura durato tutta la vita. Eppure non si direbbe: tutto sembra così facile, lineare, gioioso nella sua arte, da far immaginare che essa sia sgorgata dal nulla. Invece. «Ho scelto di custodire dentro di me tormenti e inquietudini per poter trasmettere solamente la bellezza del mondo e la gioia del dipingere». Sì, il programma era questo: gli espressionisti riversavano sulla tela il male di vivere, i surrealisti l’indecifrabilità dell’inconscio, l’amico rivale Picasso qualsiasi cosa volesse.Lui no. «Ciò che sogno – scriveva nel 1908 – è un’arte di equilibrio, purezza, quiete, senza soggetti inquietanti o preoccupanti, che sia… un lenitivo, un calmante per la mente, qualcosa di analogo a una confortevole poltrona che rilassa dalle fatiche fisiche». Sembra semplice, vero? Perfino troppo. Ma a leggere i suoi scritti si capisce quanto lavoro, sudore e sofferenza gli sia costato l’approdo felice della sua pittura. E quanto l’abbia cambiato: tanto da impedirgli di fare un ritratto alla figlia provata dalle prigioni naziste. Troppo dolore. Lui inseguiva La gioia di vivere:il titolo del suo celebre quadro è ora anche quello di una raccoltadei suoi scritti ( introduzione e cura di Giorgio Agnisola, traduzioni di Lila Greco, pp 278, con 26 tavole a colori, euro 30, Donzelli). Matisse amava riflettere sulla propria arte e tra saggi, interviste, introduzione a cataloghi, ci ha consegnato una ricca autobiografia umana e intellettuale: testimonianza della consapevolezza con la quale dipingeva e della gentilezza d’animo con la quale viveva. Molte sono lettere: agli amici, al figlio Pierre, ai pittori come Georges Rouault e Pierre Bonnard con il quale aveva stretto una profondo legame, non è difficile capire perché. Non parlano sempre di arte. Qualche volta di malattia, di affanni quotidiani. Oppure di viaggi: e sono così piene di descrizioni, visioni, colori da farci immaginare il mondo attraverso gli occhi dell’autore. E di farci accedere così alle origini della sua pittura. Perché «la creazione comincia dalla visione. Vedere è un’operazione creativa e esige uno sforzo». Occorre liberarsi delle abitudini, guardare le cose «come se si vedessero per la prima volta, come quando eravamo bambini». Per questo «penso che nulla sia più difficile per un vero pittore che dipingere una rosa, perché, per farlo, deve prima dimenticare tutte le rose dipinte». E Matisse ha molto dimenticato, visto che le sue tele sono piene di fiori, oltre che di arabeschi, stoffe, finestre. E donne, soprattutto donne. Chissà quante modelle hanno attraversato il suo studio. Compaiono nei suoi disegni attraverso poche linee semplificate, ma sono il frutto di ore e ore di pose: di solito tre al mattino e tre al pomeriggio. «Io dipendo completamente dal modello che osservo in libertà e solo in un secondo momento mi decido a fissargli la posa che corrisponde di più alla sua posa naturale… e di quella divento schiavo». Schiavo dell’espressività, non della somiglianza. «Io non creo una donna, faccio un quadro. Se incontrassi una così per la strada scapperei terrorizzato». Modelle, assistenti, infermiere: il mondo che circondava Matisse era tutto femminile. Amava parlare con le donne, amava confidarsi. Con una, Lydia, nacque un rapporto così intimo – seppur platonico – da provocare la gelosia della moglie e poi il divorzio. Per Lydia inventò un neologismo: il nostro, scrisse, è un Fleurt, e non un flirt. «Come se ci lanciassimo l’un l’altro dei fiori». Ed è stata ancora una donna – l’infermiera Monique Bourgeois, che poi prenderà i voti diventando suor Jacques-Marie – a far nascere il capolavoro finale di Matisse, la Cappella del Rosario di Vence, un miracolo di luce e di disegno nel Sud della Francia, che segna il coronamento e il superamento delle fatiche di una vita. La gioia che cercava nell’arte era ormai diventata “un’esperienza religiosa». «Questa cappella non sono io che l’ho voluta. Sono stato costretto a farla…Tutto è venuto da un’altra parte, da più in alto di me».