La Lettura, 22 dicembre 2022
Schulberg e Un volto nella folla
«Era meraviglioso e inquietante come Lonesone, quel gondoliere con la scatola per sigari, sparasse su ogni questione globale senza la benché minima conoscenza dei retroscena storici effettivi. Un insipiente pieno di boria, col coraggio della sua stessa ignoranza, che non aveva la minima esitazione ad alzarsi e dire ai suoi “vicini” – ossia a chiunque in America – come mandare avanti i loro affari e quelli dello Stato». Quanti nomi potremmo dare a questo volto di intrattenitore televisivo! Ne abbiamo conosciuti tanti: gente senza arte né parte ma con uno straordinario magnetismo naturale, capaci dall’oggi al domani di arrivare al successo, di contagiare con la loro logica barbarica e i loro linguaggi ipnotici l’intera scena pubblica. Spesso le chiacchiere in radio o in tv sono prigioniere di un circolo vizioso: vivono sull’esecrazione ma hanno continuamente bisogno dell’esecrabile, non possono permettersi di cambiare le cose, trasformarle. Eppure, ogni giorno vogliono convincere gli ascoltatori che bisogna cambiare le cose e che loro sanno come fare.
Un volto nella folla di Budd Schulberg – finora inedito in Italia – è pubblicato ora da Mattioli 1885 con la traduzione di Silvia Lumaca e la prefazione di Gian Paolo Serino. Il libro di Schulberg, pubblicato nel 1953, fu uno dei primi a raccontare un fenomeno decisivo nella storia dei media: l’apparizione e l’ascesa dell’uomo comune nel mondo dello spettacolo e la contaminazione tra show popolare e politica. Prima la radio e poi la televisione hanno regalato all’«uomo comune» il diritto di parola, l’ossessione di essere sé stesso, a qualunque costo, la pretesa di cambiare il mondo.
Quand’è che si è instaurata la cosiddetta «democrazia del pubblico» che ha spazzato via quella dei partiti, eleggendo i media generalisti a principali agenti di socializzazione politica? Quand’è che la politica ha cominciato a trasferirsi dai territori della società «reale» allo spazio mediale, assegnandosi la gestione della sfera pubblica attraverso linguaggi e format presi a prestito da radio e tv?
La scena primaria potrebbe essere questa: «Era una tranquilla mattina durante la settimana ed ero praticamente sola in ufficio. C’eravamo soltanto io e Farrell, che stava lì seduto tra tutti i pulsanti e ci mandava in onda, col doposbornia e tutto. Il capo era fuori chissà dove, per un po’ di relax. Joe Aarons, il nostro promoter, era fuori a raccontare a qualche industriale che il suo business sarebbe fallito se non lo avesse sponsorizzato su Kfox. Ok? Pronti? Fiato alle trombe. Suonate i cimbali. Entra Mister Rhodes. Era grosso e veniva dall’Ovest, ma non era uno spilungone come Gary. Era grosso dalla testa ai piedi, come un fullback robusto dopo tre anni che ha smesso di allenarsi. Aveva il volto arrossato e sembrava sempre sul punto di scoppiare a ridere, il tipo strafottente. Doveva aver superato i trenta da parecchio, ma sembrava ancora un ragazzo. Indossava un completo marrone non stirato e degli stivali da cowboy, e si dondolava da un piede all’altro, con aria timida, anche se qualcosa mi diceva che in realtà era meno timido di un bulldozer. Feci partire un pezzo – un classico, Can’t Get Started di Berrigan – e uscii a vedere perché questo macho sorridente che scorgevo attraverso il vetro era venuto a farci visita nel nostro castello radiocomandato».
Chi racconta in prima persona è una giovane conduttrice di una radio di provincia, la Kfox Wyoming. Una mattina, appunto le si presenta uno strano tipo, un cantante folk: «Sono Rhodes, Larry Rhodes. Mi chiamano Lonesome». In quella pigra radio che trasmetteva canzoni e annunci pubblicitari preregistrati, l’arrivo di Lonesome Rhodes, «volgare ed efficace», sconvolge non solo una cittadina del Wyoming ma comincia a instaurare un nuovo rapporto tra media e vita sociale.
«Lonesome si mise semplicemente a vomitare roba. Qualsiasi cosa gli capitasse in testa, ecco cosa vuol sentire la gente. Aveva quel certo je ne sais quoi. Era un uomo del popolo… Quel poco successo che aveva a Fox non lo sorprendeva per niente. “È il mio magnetismo naturale”, spiegava, “il magnetismo che mi ha dato Dio”».
Non voglio rovinare la bellezza del racconto e il piacere della lettura, aggiungo solo che Schulberg coglie con acutezza il segreto dei futuri Lonesome Rhodes: ribadire di essere «gente comune», esprimere opinioni su tutto, incantare il pubblico, offrirsi sempre come buon samaritano (lavorare per il bene della “gente comune”). Così dalla piccola radio si passa alle copertine dei settimanali importanti, ai network più grandi, coast to coast, alla scena politica.
Ripeto: ne abbiamo conosciuti molti di conduttori simili: ruvidi, genuini, genteschi. Un formidabile fiuto ha suggerito loro che per essere eccezionali bisogna mascherarsi da persone normali, scendere al gradino più basso della comunicazione, dare spazio e voce all’inespressività del quotidiano. Tutto questo Schulberg lo racconta nel 1953, quando in Italia non esisteva ancora la televisione.
Ma chi è Budd Schulberg? Figlio di un tycoon della Paramount, e lui stesso, per un certo tempo, pupillo di Hollywood (da sue opere derivano film famosi come Il colosso d’argilla con Humprhey Bogart) ma anche comunista inciampato nelle reti del maccartismo, spesso elegge il mondo del cinema quale osservatorio ideale. Descrive i retrobottega degli studios come scenari simbolici, per il mescolarsi in loro di patina dorata e spietatezza sostanziale. Durante il secondo conflitto mondiale si arruola nell’esercito, prendendo parte all’unità speciale di John Ford per il quale scrive il soggetto del documentario December 7th realizzato nel 1943 dallo stesso regista e premiato l’anno successivo con l’Oscar per il migliore doc breve. Convocato poi dall’Huac (House Un-American Activities Committee) anche per testimoniare sulla sua esperienza nel Partito comunista, al quale era stato iscritto dal 1937 al 1939, diventa un testimone collaborativo. Riprende così a lavorare nel cinema scrivendo la sceneggiatura di due importanti film di Kazan: Fronte del porto, 1954, e Un volto nella folla, 1957. Il suo racconto di un’ottantina di pagine, che in origine si chiamava Your Arkansas Traveler, diventa dunque il celebre film A Face in the Crowd di Elia Kazan, la cui trama ricalca solo in parte l’originale. Larry Rhodes (Andy Griffith) viene scoperto in una cella dell’Arkansas da Marcia Jeffries (Patricia Neal) e trasformato in un folk singer e conduttore radiofonico, che conquista presto i favori degli ascoltatori: Un volto nella folla è il titolo di una trasmissione sulla gente comune, rivolta alla gente comune. Grazie al suo carisma, Rhodes diventerà una celebrità della tv, in grado di influenzare il pubblico, l’industria pubblicitaria e persino la politica. Opportunista, ignorante ma astuto e ambizioso approfitta della sua enorme influenza per sostenere un candidato alla presidenza, il senatore di destra Worthington Fuller (Marshall Neilan) che scala i sondaggi grazie a un Rhodes sempre più fuori controllo, trasformato ormai in un «mostro» dalla notorietà.
Il potere finirà per dargli alla testa, lo spingerà a calpestare ogni sentimento. Alla fine, sarà la sua scopritrice che lo butterà giù dal piedistallo.
Le critiche sul film hanno sempre insistito sulla bravura di Kazan nel radiografare la società dello spettacolo e mostrarne i lati più guasti e oscuri: la parabola di ascesa e caduta di Lomesone Rhodes è un magistrale quanto profetico trattato sulla logica delle apparenze e il potere di manipolazione dei media. I critici si preoccuparono di esaltare il durissimo atto d’accusa e l’angosciato grido d’allarme sulla capacità di manipolazione dei media, su Hollywood, la «fabbrica del consenso». Non a caso, l’Academy Award ignorò del tutto il film, probabilmente troppo impietoso e politicamente scorretto per aspirare agli Oscar.
Su «Cinema Nuovo», il critico marxista Guido Aristarco (1918-1996) si doleva della mancanza di un’analisi ideologica sull’industria culturale: «È davvero una coraggiosa indagine sociale, una denuncia aperta contro certi fenomeni questa seconda produzione “indipendente” di Elia Kazan? Nel caso affermativo, in quale ambito questo coraggio – e indipendenza – si muove, cioè da quali reazioni interne all’autore l’opera prende le mosse e quali risonanze suscita? Ci sono ragioni per essere perplessi di fronte alle possibilità concrete e positive di una indipendenza, di un non conformismo di fronte all’industria della cultura (cinema, radio, tv) quale è venuta conformandosi nella società». Il giovane François Truffaut (1932-1984) lo recensì così sui «Cahiers du Cinéma»: «Un volto nella folla, che io considero un’opera grande e bella la cui importanza trascende i limiti della critica cinematografica, è vivamente dispiaciuta al pubblico americano come del resto a quello francese solo perché si colloca agli antipodi di Fronte del porto e perché vi si attaccano oggi proprio quelli che erano ieri blanditi… Ciò che è importante non è la sua struttura, ma il suo spirito inattaccabile, la sua potenza e ciò che oso chiamare la sua necessità. Il solito difetto dei film “onesti” è la loro morbidezza, timidezza e neutralità anestetica. Il film è appassionato, esaltato, feroce, inesorabile come una “mitologia” di Roland Barthes – e, come esso, un piacere della mente».
Rispetto al racconto, una narrazione in prima persona la cui grazia è seconda solo alla profondità dell’argomento trattato e il cui punto di vista femminile è di rara sensibilità, il film gronda moralismo, che non è mai un buon consigliere. L’irresistibile ascesa dello sconosciuto e l’inevitabile caduta è ricompresa nel giudizio morale e questo giudizio è amministrato da chi ha creato il fenomeno nel nome e per conto della gente comune.
Il racconto lo si può leggere come un cont moral, un piccolo trattato filosofico sulle comunicazioni di massa; il film, invece, si nutre di indignazione e di moralismo che sono parte consustanziale della stessa spirale che si vuole condannare. Forse si nutre solo di compromessi, come sostiene David Thomson in La formula perfetta. Una storia di Hollywood (Adelphi): «Uno sceneggiatore può biasimare solo sé stesso per i compromessi che accetta. Anche noi, in quanto pubblico – o comunità culturale – dovremmo tener conto di tali compromessi quando giudichiamo l’impatto, o il valore, dei film. Perché sono le grandi aziende e le società di produzione a fare i film, non gli individui o i singoli artisti».