Corriere della Sera, 22 dicembre 2022
In morte di Alberto Asor Rosa
Non era certo una personalità che poteva lasciare indifferenti, Alberto Asor Rosa. Aveva tanti amici quanti nemici. Amici fedelissimi, come Eugenio Scalfari, che gli chiese di introdurre il suo Meridiano. E nemici particolarmente agguerriti. È stato, prima e forse più che uno studioso, un critico militante (e per molti irritante). Nato nel 1933 a Roma, Circonvallazione Nomentana, da Assunta Fogliuzzi, di estrazione popolare (il padre trovatello era stato adottato), e da Alessandro, impiegato delle ferrovie, di famiglia anarco-socialista di origine bolognese. In Assunta e Alessandro (2010) Asor ricostruì la storia dei genitori, mentre ne L’alba di un nuovo mondo (2002), che tardivamente lo rivelò narratore (con sua stessa sorpresa), aveva raccontato la propria infanzia romana. Quello strano cognome a specchio fu inventato da un suo avo, che così intorno al 1820 intese distinguere, da quelli legittimi, un figlio naturale. Un «palindromo» a cui Montale volle dedicare una poesia di tono satirico («Asor, nome gentile / il suo retrogrado / è il più bel fiore…»). Insegnò nei licei per una decina d’anni e poi Letteratura italiana alla Sapienza: nel 1977, gli studenti scrissero sui muri dell’università «Asor Rosa sei un palindromo» (parola leggibile da sinistra a destra e viceversa) in scherno al suo dichiararsi marxista ed essere in realtà un uomo di potere (il tratto baronale gli sarebbe stato spesso rimproverato).
Alla Sapienza, Asor era stato studente, subito vicino al gruppo socialcomunista di Rinascita e poi iscritto alla Federazione giovanile del Pci, con cui avrebbe avuto poi rapporti tormentati. Si era laureato con Natalino Sapegno (correlatore Ungaretti) presentando una tesi su Vasco Pratolini. Proprio sul neorealismo di Pratolini nasceranno vivaci polemiche all’uscita di Metello (1958), e Asor Rosa non esiterà a schierarsi dalla parte di Muscetta, che inquadrò il romanzo nell’area della narrativa sentimentale più che in quella storico-sociale, opinione sostenuta da Salinari.
«Mondo operaio» per cominciare, in seguito «Mondo nuovo» e «Quaderni rossi», il periodico di tendenza operaista, di cui fu fondatore: sono gli anni delle collaborazioni alle riviste e delle amicizie con Raniero Panzieri, Massimo Cacciari, Mario Tronti, Toni Negri. Anni in cui balzarono in evidenza le qualità polemiche e dialettiche di Asor Rosa. Sorprendentemente nel 1964 lo troviamo alla riunione del Gruppo 63 di Reggio Emilia, dove stringe un rapporto stretto (e duraturo) con Umberto Eco. Ma la discussione più aspra sarebbe emersa di lì a poco, quando Samonà e Savelli nel 1965 pubblicò il libro suo destinato a rimanere più famoso, Scrittori e popolo, un’indagine sul populismo nel romanzo italiano: il saggio si configurò come una denuncia della cultura di sinistra, tesa a strumentalizzare la letteratura ai fini di un banale consenso politico. All’orientamento populistico (e ideologico) che elevava il popolo a mito e in particolare all’idea gramsciana di letteratura nazional-popolare, Asor Rosa opponeva l’esperienza degli scrittori borghesi capaci di vivere fino in fondo la crisi della loro classe. I nomi erano quelli di Verga, Svevo, Montale, Gadda e in parte Pirandello, ma sul versante europeo Asor aveva già scritto un importante saggio su Thomas Mann. Il paradosso era che partendo da posizioni operaiste Asor Rosa arrivava a rivalutare la «letteratura grande-borghese» europea che, a differenza della letteratura italiana del dopoguerra, rappresentava i drammi e le lacerazioni della società contemporanea. L’attacco frontale era a Carlo Salinari, che aveva teorizzato il passaggio dal neorealismo al realismo e che ribaltò sull’ex allievo l’accusa di essere lui stesso un «piccolo-borghese».
Alle incursioni del critico e dello storico della letteratura presiede sempre un impulso politico: un interrogativo costante sui problemi della contemporaneità, sulla funzione dell’intellettuale, sul suo rapporto con la società e il mondo. I risultati di questa mentalità si vedranno soprattutto nei saggi del decennio più infuocato: Intellettuali e classe operaia (1973), La cultura della Controriforma (1974), Le due società (1977), una raccolta di scritti d’occasione che nell’insieme rappresenta una riflessione sulla crisi come «somma degli elementi che impediscono a questo sistema di mantenere il suo passato equilibrio». Non sorprende che per Asor molti degli elementi che hanno provocato la crisi della società e della politica italiane li attribuisca a «noi»: «noi movimento operaio, noi partito comunista, noi lotte operaie e studentesche». Già contenevano, quei brevi saggi, un’idea peculiare di identità (non solo letteraria) italiana segnata, per tradizione secolare, da una «separazione fra governanti e governati» assai più netta che altrove, dunque di una frammentazione che rendeva impossibile il riconoscersi in una collettività. Non a caso nel ponderoso volume intitolato Genus italicum (1997) la storia letteraria italiana, da Boccaccio a Guicciardini a Verga a Collodi a Calvino, viene percorsa come entità tanto multiforme da rendere pressoché vano l’intento di definire un canone e più pertinente invece l’adozione del concetto di «gene nazionale».
L’interrogazione sugli intellettuali culmina in un libro-intervista a cura di Simonetta Fiori (Il grande silenzio del 2009), in cui viene affrontato, con un evidente senso di sconforto, il tema del cambiamento e il declino di quel nesso tra politica e cultura che ha caratterizzato la storia dell’Italia unita. Da qui, secondo Asor Rosa, il dissolvimento dell’idea stessa di intellettuale con il suo sostanziale mutismo. A prescindere dal campo letterario e nel solco di una visione sempre più negativa sulle sorti del mondo, va ricordato il pamphlet uscito all’indomani della Guerra del Golfo, Fuori dall’Occidente ovvero ragionamento sull’Apocalisse (1992). Il crescente pessimismo non bastò tuttavia a fargli perdere la fiducia nella letteratura quale fattore di «trasformazione del mondo», come nota Corrado Bologna introducendo il Meridiano di Asor Rosa, sottolineando la sempre più convinta stima del critico nei confronti di Italo Calvino quale esempio di stile e insieme di tensione etica e civile.
Al centro dell’attività politico-culturale di Asor Rosa, critico e studioso, che ha vissuto fasi variabili e non sempre coerenti con i presupposti di partenza, si pone un imponente laboratorio editoriale: il cantiere della Letteratura italiana Einaudi, che dal 1982 ha occupato quasi due decenni di lavoro e prodotto numerosi volumi storici e tematici. Nell’impianto multiforme dell’opera, l’impronta più riconoscibile è in quell’intreccio tra storia e geografia suggerito in un famoso saggio da Carlo Dionisotti. Una scelta tutto sommato inattesa. Va detto comunque che Asor Rosa, negli ultimi scritti, non esitava a esprimere la sua adesione alla filologia come approccio di lettura finalmente non ideologico: il che dà conto della intima (e forse radicale) trasformazione della sua visione critica.
Il narratore è stato una sorpresa, anzi più sorprese: ultima, nel 2017, la sequenza in chiave erotica di Amori sospesi. Ma si espresse forse al suo meglio nel «bestiario» del 2005 (Storie di animali e altri viventi), un’«arca di Noè in formato domestico» (il cane, il gatto io e te...) che si esalta non nella parola ma nella comunicazione telepatica. Per un intellettuale che aveva puntato tutto sulla ratio e sul discorso, un bel salto (felino).