Corriere della Sera, 22 dicembre 2022
Biografia di Isabella Ragonese raccontata da lei stessa
I Velvet Underground e Rosa Balistreri. Il desiderio di muoversi e la paura di volare. Il calore meridionale e il mare d’inverno. Lo stakanovismo e l’ozio come una delle belle arti. La facilità di raccontare e la riservatezza assoluta sulla vita privata. A tenerli insieme ci pensa Isabella Ragonese, maestra di mescolanze e contraddizioni. «Sarà che da siciliana sono abituata a vivere in mezzo ai contrasti. Come quando mi fanno notare che ho colori nordici. Sono in buona compagnia: mio padre ha occhi blu incredibili, anche mio fratello, mia madre ha i capelli rossi. Il cognome Ragonese viene dalle Madonie, da un paesino meraviglioso che si chiama Petralia Soprana, da cui arriva anche la famiglia di Antonio Albanese, ho scoperto. Abbiamo un antenato arciprete, c’è un suo busto nella chiesa di Petralia, somiglia molto a mio padre, nel busto non si vede ma anche lui aveva occhi azzurri. Origini normanne. Mi fa strano che la rappresentazione della sicilianità sia così stereotipata. Abbiamo sempre viaggiato molto e se nominavi Palermo ti sentivi dire: ah Don Vito Corleone. Ma la mia Sicilia è quella di Letizia Battaglia o Rosa Balistreri che per me la rappresenta di più».
Protagonista del suo documentario.
«Rosa e il canto delle sirene per Sky Arte. È un film particolare, nato da un recital dedicato alla cantante che mi riporta alla mia Palermo. Molti non la conoscevano, altri non si ricordano più di lei, è una figura magnifica».
Prima opera da regista, ha fatto il salto come altri suoi colleghi attori e attrici?
«Non lo sento come salto verso una fase diversa, piuttosto un recupero delle modalità di lavoro dei miei inizi, con pochi intimi girando con un furgoncino. L’ho realizzato a modo mio, con una troupe ristretta, di amici, con cui ci si intende. Spazio all’improvvisazione, ma anche molta preparazione. Ci ho lavorato durante la prima quarantena, ho registrato la voce fuori campo di Rosa, sono partita da lì, poi sempre in casa ho girato dei video, delle foto, degli acquerelli. E alla base ci sono le lunghe chiacchierate con le donne che compongono un ritratto a più voci. Che senso avrebbe avuto fare una cosa prettamente biografica su una donna come lei, per chi non la conosceva? Per quello c’è Wikipedia. Mi sembrava meglio dare l’idea di cosa ha lasciato, incuriosire, se tu vuoi poi da spettatore attivo ti vai a vedere la sua storia, ascolti le sue canzoni».
Quando ha deciso cosa voleva fare da grande?
«Ripensandoci direi quando sono nata. Palermo è una città teatrale, ha contribuito. Però non mi ricordo un momento in cui ho detto battendo sul bicchiere: Signori, farò l’attrice. Ho frequentato l’università, come speravano i miei. Filosofia. Fondamentale è stata la prof di greco e latino al liceo, mi ha consigliato di fare laboratorio di teatro. Lì ho sentito che ero nella mia acqua. Con alcuni amici poi ho messo su una compagnia, e mi sono comprata la prima macchina, una due cavalli dell’81, lo stesso anno mio. Ero diventata un’esperta di bandi, partecipavo con progetti miei. È diventato un dato di fatto».
E i suoi?
«Padre avvocato, madre casalinga, una casa sempre piena di libri, vhs. Mio padre era fissato con gli allegati dell’Unità, tutto Monicelli tutto Truffaut, ne ho fatto indigestione. Arrivata ai vent’anni mi sono detta: se entro i 30 non diventa un lavoro, mollo. Mi hanno aiutato l’incoscienza e la faccia tosta. Ricordo l’emozione da isolana del primo lavoro in continente».
Ce la racconti.
«A Ravenna, avevo 19 anni. Sono arrivata da sola. Mi hanno guardato e chiesto: e gli altri quando arrivano? Io: mai. Ripensandoci mi sembra la cosa più simile a lanciarsi nel vuoto, nulla da perdere. Era un monologo, tratto da Le Serve di Genet: facevo tutti e tre i personaggi. E pure la costumista, truccatrice, tecnica delle luci. Ero arrivata in treno con la mia valigetta».
Palermo-Ravenna in treno è lunga.
«Ho sempre avuto paura di volare. Ormai ci sono affezionata, è un feticcio, mi piacciono le paure. Ora prendo l’aereo, anche se sto in tensione. Ti invitano al festival di Tokyo e che fai? La lascio parlare ma non comandare, la mia paura. Però per anni ho usato solo treno o pullman. Arrivavo ovunque in vagone letto, cuccette donna. Un mondo teatrale, ho mangiato paste al forno buonissime, ascoltato storie fantastiche, facevo domande. Quando chiedevano di me dicevo: studio. Non avrei mai detto “faccio l’attrice”».
Perché?
«Forse non ci credevo neanche io. Ho trovato il coraggio quando ho iniziato con il cinema».
Con Emanuele Crialese, in «Nuovomondo».
«Venne lui a Palermo. Cercava attori capaci di recitare in siciliano stretto. Ero preparatissima: in quel periodo lavoravo in una cooperativa che si occupava di persone con problemi di tossicodipendenza. Arrivavo io tutta biondina, pensavo oddio non mi ascolteranno mai. Parlare in siciliano era fondamentale, dovevi rispondere a tono. Ma dopo Nuovomondo sono tornata a Palermo. È stato con Tutta la vita davanti che ho fatto il passo verso Roma. Capitò per caso. Stavo sostituendo un’attrice in uno spettacolo in Toscana, mi vide Virzì che cercava una fuorisede. Sono stata fortunata con gli incontri. Crialese mi ha dato fiducia così come Virzì che ha affidato un film a una sconosciuta. Si sottovaluta che ogni film è un pezzo di vita, mesi, a volte un anno in cui sei coinvolto. Io sui set sono felice, sempre allegra. Faccio un lavoro che rema contro la parte di me più orsa, mi fa incontrare persone che altrimenti non avrei incontrato».
Stakanovista?
«Ma no, mi piace molto oziare. Nell’ozio c’è tutto: riposarsi, lunghe passeggiate, scoprire posti, leggere, vedere i film, gli aperitivi con le amiche. Ho fatto un anno di Erasmus a Parigi. L’anno più bello della vita. Ho dato pochissimi esami, andavo alla Cinémathèque a vedere film, avrò seguito 200 mila spettacoli, eventi, festival. La verità è che sono rari i momenti in cui non lavoro. Il teatro è il primo amore, cerco di farlo sempre, in febbraio riprenderò uno spettacolo che adoro di Lucia Calamaro».
L’impressione comunque è che il lavoro occupi il primo posto nella sua vita. E l’amore?
«Chi lo sa? Parlo di tutto ma qualcosa me la tengo, un pezzettino. Non credo sia interessante, davvero».
Da anima divisa in due, Sicilia e Roma, di cosa sente la mancanza?
«Il mare. Non lo vivo da vacanziera, mi manca il perdersi con lo sguardo nell’orizzonte. Nel doc ho fatto il bagno a dicembre, una follia, ho coinvolto tutti. Eravamo a Licata, la città di Balestrieri, la Sicilia del Sud, un mare diverso dal mio. Più aperto, più freddo. Hai davanti l’Africa».
A Roma ha imparato a sentirsi a casa?
«L’ho capita quando ho smesso di pensare che andavo in una metropoli. Faccio vita di quartiere, tendi a vivere con il mondo, il tuo bar, difficile che sconfini. La Sicilia mi resta addosso. Quando cucino gli amici mi prendono in giro, dicono che metto ovunque uva passa e pinoli, come il guanciale per i romani».
Di cosa non può fare a meno?
«La musica. La prima cosa che ho fatto per Sky Arte fu Retromania, un programma musicale. È il ramo su cui sono più preparata, ne ho ascoltata tantissima. Quando hai un fratello più grande cresci prima musicalmente. Prendevo di nascosto i suoi dischi. La folgorazione è arrivata con i Velvet Underground, mi emoziona pensare all’eccitazione di ascoltare questo vinile con la banana in copertina. Dovevo rimetterlo nello stesso punto per non farmi scoprire».
Cantare in un film, dunque, è il massimo.
«La cosa più difficile è stata quando Giorgia Cecere mi ha chiesto di stonare al karaoke Luna in piena di Nada, che io adoro, le chiedo scusa. Non ho una bella voce ma sono intonata. Condivido con mio fratello questa malattia, fin da piccoli: se ascoltiamo un pezzo lo impariamo subito a memoria, conosco canzoni assurde».
Però si è presa una soddisfazione con un pezzo degli Smiths. Impegnativo.
«There is a light that never goes out. Grazie a Fabio Mollo, per Il padre d’Italia. L’ho fatta senza sapere che aspettavano che io la incidessi per dare l’ok definitivo. Arrivato solo dopo avermi sentito. Ho ancora l’email in cui mi dicono che gli era piaciuta la versione. Una medaglia».
Ne conserva altre?
«C’è una foto che amo molto con Letizia Battaglia. Ce l’ha fatta Lia Pasqualino, fotografa di scena di Solo per passione. Noi vicine che ci sussurriamo una cosa. Letizia ti scrutava, ti metteva in imbarazzo, ti sentivi nuda, ti spogliava con il suo occhio. Chi l’ha conosciuta mi ha detto di averla rivista nel film. Una grande soddisfazione».
Altri incontri felici?
«Quando sono stata madrina al festival di Venezia ho conosciuto Frances McDormand che mi ha fatto in bocca al lupo per tutto, simpaticissima, mi sono emozionata. Io sono riservata, non chiedo autografi, ho paura di disturbare».
E quando li chiedono a lei?
«Mi fa piacere, diventa uno scambio. I primi tempi non me l’aspettavo. Una volta al supermercato, pago con la carta, allora si firmava. Il ragazzo alla cassa mi chiedeva: che firma hai fatto, pensavo di aver sbagliato qualcosa. Poi ho capito: voleva dire che film hai fatto. Per dire il mio rapporto con la fama e pure con il romano».
Che rapporto ha con la politica?
«Vengo da una città in cui fare politica è una necessità, ti fa sentire vivo. Noi siamo la generazione delle stragi del ’92. Ero alle medie, mi ha reso lampante che da soli non si va da nessuna parte. Se non stiamo bene tutti non sta bene nessuno. Ora la faccio con i miei personaggi. Anche per questo ho girato il doc su Rosa. Lei era una donna piccolina con una forza straordinaria. Una voce neutrale che veniva dalla terra: poteva essere di una donna, di un uomo, di diverse età. Ha vissuto esperienze durissime ma non è stata mai vittima. Come dice Concetta nel film: è inutile che aspetti che tuo padre o tua madre ti diano un consenso, prenditelo».