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 2022  dicembre 22 Giovedì calendario

Iran, nella lista del boia ci sono 70 manifestanti

Se la giustizia iraniana ha dichiarato di aver condannato a morte undici persone per le proteste contro il regime di Teheran scatenate dalla morte di Mahsa Amini, a Parigi, un collettivo di avvocati, per lo più franco-iraniani, “Iran Justice”, ha stilato una lista di almeno 70 persone detenute nelle prigioni iraniane e condannate a morte. Tra loro, anche cinque minorenni: “Le condanne a morte sono uno strumento intrinseco della macchina della repressione iraniana – dice al Fatto Chirinne Ardakani, avvocata specializzata in diritto degli stranieri –. Nel 1988, l’ayatollah Khomeini impiccò migliaia di oppositori politici. Oggi il regime incarcera e uccide semplici manifestanti, giovani che reclamano il rispetto delle libertà e dei diritti costituzionali. Il regime uccide persino i bambini, li condanna a morte violando tutti i trattati internazionali, detenendoli nelle stesse condizioni di detenzione degli adulti, fino a che non diventano maggiorenni”.
Due 23enni sono già stati giustiziati, Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard, rispettivamente il 20 novembre e il 12 dicembre. Sono nel braccio della morte anche Manouchehr Mehman-Navaz per aver incendiato un edificio governativo a GharchakSahand Nourmohammad-Zadeh, un atleta pluripremiato che ha incendiato bidoni della spazzatura (il suo caso sarebbe in appello davanti alla Corte Suprema), il medico Hamid Ghareh Hasanlou, a cui è stata estorta una confessione sotto tortura, il 22enne campione di karate Mohammad Mehdi Karami: in un video i suoi genitori hanno implorato il regime di non ucciderlo. I capi di accusa più frequenti sono “inimicizia contro Dio”, “corruzione sulla terra” e “intelligenza con Israele”: “Il regime vuole mettere a morte l’opposizione con il sigillo della giustizia – spiega Ardakani –, strumentalizzando il sistema giudiziario, organizzando finti processi, inventando accuse fantasiste”.
Il collettivo documenta i crimini del regime, “tutti i fatti che causano la morte o danni all’integrità fisica: manganellate, percosse, uso di armi da fuoco, pistole a pallettoni o a munizioni vere e armi pesanti, usate soprattutto nelle regioni a minoranza curda, e fucili da caccia che circolano nel mercato nero”. Gli avvocati raccolgono i rapporti di Ong come Amnesty International e Human Rights Watch, foto e video che circolano sui social e incrociano i dati con le informazioni che arrivano dall’Iran per verificarne l’autenticità. Un giorno sperano di trasferire le prove raccolte ai colleghi in Iran, molti dei quali oggi sono a loro volta in prigione, per portare i responsabili in tribunale. Finora hanno censito i casi di 600 vittime della repressione, di cui 70 bambini, come Kian Pifalak, 9 anni, rimasto ucciso in uno scontro a fuoco a Izeh. Omid Sarani aveva 13 anni, Asra Panahi 16, Mona Naghib 8.
Decine sono le donne scomparse e ritrovate morte in condizioni inspiegabili, come Naemi Atefeh, 37 anni, attivista animalista arrestata a Karaj, il cui corpo è stato ritrovato otto giorni dopo, con i segni della tortura. Gli abusi commessi in prigione sono i più difficili da documentare: “Le testimonianze dei detenuti, se degne di fede, sono raramente corroborate da certificati medici, foto o video da portare come prove. Lo stesso vale per gli stupri in prigione – continua Ardakani –. Le donne in genere non hanno accesso alle cure e, se possono recarsi in ospedale, i medici subiscono le pressioni del regime per recuperare le cartelle cliniche”.
Su iniziativa del collettivo, come già in Germania, una sessantina di parlamentari francesi di diversi gruppi politici hanno accettato di dare il patrocinio politico a un condannato a morte: “Solo il name and shame può salvare queste vite”. Per Chirinne Ardakani si deve parlare di rivoluzione, non di rivolta: “Chi protesta oggi rivendica la fine del regime, di un sistema arcaico che controlla le forze militari e le ricchezze. I giovani vogliono la democrazia. La questione del velo, benché abbia scatenato la protesta, è secondaria. Il messaggio delle donne iraniane – spiega – è di un’estrema modernità: non chiedono di abolire il velo, ma l’obbligo di indossarlo, vogliono cioè essere libere di scegliere. Intorno alla soppressione della polizia morale c’è stato un grande imbroglio di annunci. Nei fatti non è stata mai abolita e, pure se fosse, il regime non ha intenzione di toccare la legge del 1983 sull’obbligo del velo”.