la Repubblica, 21 dicembre 2022
Sul libro di Gianrico e Giorgia Carofiglio “L’ora del caffè”
Un padre, una figlia, due caffè americani e un mucchio di cose da dirsi, non poche delle quali in contrasto tra loro. Si chiama famiglia, può chiamarsi libro. Lo hanno scritto Gianrico e Giorgia Carofiglio, mettendo in pagina quel percorso a zigzag che comincia da Hegel (tesi, antitesi, forse sintesi) per arrivare dalle parti di boomer e millennial e delle loro scintille. Il risultato èL’ora del caffè(Einaudi Stile libero) e si presume ne siano occorse svariate caraffe. Eloquente il sottotitolo: manuale di conversazione tra generazioni incompatibili. Ma non lo sono, è un trucco.
Cosa significa diventare adulti? Cosa si capisce, come si può spiegare? Carofiglio e figlia si confrontano su alcuni temi cruciali del nostro tempo, non necessariamente generazionali, dall’emergenza climatica alla fragilità psicologica, dalla questione femminile alla comunicazione nel flusso digitale, dal lavoro al cibo. Al lettore arriva la sintesi compiuta, a caffè già bevuto, ma è evidente che per scriverla siano servite scintille, curiosità, umiltà e dubbio: se qui conta il prodotto finito, non meno pesano gli sfridi e gli apparenti scarti di lavorazione, perché quando si discute sul serio non si scarta nulla. Il materiale compone l’oggetto, il difficile è scavallare gli anni che possono diventare muro, è la storia del mondo, padri e figli, madri e figlie senza dimenticare nonni, nonne, zii e parentame vario, insomma il peso del tempo che grava sul presente e lo condiziona. Stavolta, però, per Carofiglio (uno e due) il passato non è una terra straniera.
Ne vien fuori un agile testo quasi politico, dove è interessante soprattutto il metodo seguito dagli autori, sebbene la voce della ragazza si senta poco, la sintesi arriva già compiuta e lo stridore bisogna immaginarlo: però nessuno si arrocca sulle posizioni, padre e figlia spostano non solo la torre ma anche il cavallo, accettando che il ragionamento e le convinzioni si muovano di lato sulla scacchiera delle presunte certezze. Se il pensiero altrui ci appare un universo stravagante, sarà la stessa cosa per il nostro, di universo. Non l’unico possibile. Ed ecco che alla sfuggente realtà ci si accosta smettendo, per una volta, di inseguire prove che confermino le ipotesi: e se quelle buone non fossero sempre le nostre? E se derivassero da un incontro di pensieri? Più delle risposte, qui vale un modo diverso di formulare le domande.
Carofiglio e figlia provano a guardare le loro idee con occhi diversi, prendendo in considerazione la versione migliore della tesi dell’altro: accettare l’incertezza apre spazi che forse non immaginavamo, il disordine apparente non è per forza un nemico del ragionamento. Quando invece le certezze diventano una palude, non si avanza di un centimetro.
Si parte dal cibo, ormai una frontiera, qualche volta una trincea dove non si combatte solo per la salute propria ma per quella di tutti, per l’ambiente, per una migliore dieta del mondo. Difficile trovare la direzione, l’emotività è un elefante, va dove vuole e fa massa, la razionalità è il suo guidatore, non c’è l’uno senza l’altra. Senza dimenticare che la natura è moralmente neutra e non si lascia tirare per la giacca, non possiamo manipolarla con la spocchia delle nostre convinzioni. Non è che non le piacciano, è che per lei proprio non esistono, per fortuna neppure le ascolta.
Dal cibo all’ansia è un momento, non caso il libro prosegue con alcune riflessioni sul disagio psicologico che i giovani accettano di affrontare senza i pesi e i pregiudizi dei vecchi o dei quasi vecchi: non si vergognano delle loro fratture e preferiscono provare a curarsi prima di essere malati. Quando si accetta lapropria fragilità, ci si sente meno inadeguati e qualcosa si muove verso la soluzione del problema.
Uomini, donne, incroci complicati sul territorio del lavoro dove i maschi continuano a essere sottintesi, se comandano e fanno carriera li diamo per scontati, le donne invece no. Lo slalom tra i capitoli è anche un esercizio di piccola pedagogia. I giovani, lo sappiamo bene noi boomer (che però chiediamo sottovoce di non essere discriminati e giudicati solo per questioni anagrafiche, nessuno lo merita, ovviamente neppure i millennial e i loro cuginetti “zeta”), hanno oggi una sensibilità più spiccata per certi temi. E allora il padre cerca di capire cosa ci sia di sbagliato nel mangiare carne (alla fine, ne mangerà un po’ meno) e perché il clima non ci conceda più molto tempo per costruire un futuro abitabile. Interessanti le pagine sulla retorica dei bamboccioni e sul politicamente corretto, cominciando dalle parole per dirlo: regole diverse sono necessarie non solo al linguaggio, ma perché si affermi un pensiero nuovo a vantaggio non soltanto degli esclusi.
Sorseggiando i loro litri di caffè, padre e figlia vanno alla radice del malessere giovanile che è stagnazione, consapevolezza che il mito dell’ascesa generazionale non vale più e non dipende dall’impegno, dall’intelligenza, dal sacrificio e dallo studio matto e disperatissimo, quella è una stagione finita e adesso si tira cinghia. Tutto ciò è frustrante e genera sensi di colpa senza motivo (è una specialità dei sensi di colpa), come se le attuali condizioni economiche del pianeta e le crisi dilanianti fossero una sconfitta personale, per di più meritata. Forse occorre ripensare le nozioni stesse di successo e fallimento. Il “buco nero della speranza” può non essere una frattura o un rimprovero verso i genitori che hanno vissuto alla grande, e questo è il risultato, questa l’eredità. Il caffè è amarissimo, però va bevuto insieme.