Corriere della Sera, 20 dicembre 2022
Intervista a Riccardo Zanotti
Riccardo Zanotti è il frontman dei Pinguini Tattici Nucleari. In poco tempo sono arrivati terzi a Sanremo, un miliardo di streaming dei loro brani, trecentomila biglietti venduti nei concerti estivi, hanno vinto una ventina di dischi di platino e recentemente si sono aggiudicati l’Mtv Music Award come miglior gruppo musicale italiano.
La vita di questi sei ragazzi, la cui storia nasce e si svolge nella bergamasca, in due anni è radicalmente cambiata. Sono una presenza strana e felice, nella scena musicale italiana. La loro musica è davvero pop, nel senso di costante ricerca del punto di rugiada nel quale il desiderio di trasmissione di significati e la ricerca del grande pubblico si incontrano. Nei loro testi, lo ricordo a Zanotti che li ha scritti, si possono trovare Danton, Bresson, Monsters &co., i Sims, Marc Bloch, Nietzsche, Oscar Wilde, Neville Paciock, Pasolini, Harry Styles, Kierkegaard, Lanthimos, Baggio, Fonzie e Hemingway. Umberto Eco e Beniamino Placido li avrebbero avuti in simpatia. Riccardo Zanotti ha ventotto anni ma, per saggezza e simpatia, mi ha ricordato i protagonisti della musica italiana che ho incontrato e amato quando avevano la sua età.
Come inizia la sua passione per la musica?
«Il mio primo impatto fu felliniano: una pila di compact disc che trovai in mezzo alla strada quando nel mio paese una giostra, dopo la festa della Madonna della Gamba, lasciò la piazza per trovarne un’altra in cui continuare il suo viaggio. C’erano, buttati sul marciapiede, dischi di Madonna, di Michael Jackson e, in particolare, uno dei Queen la cui copertina mi conquistò. Facevo la quinta elementare e da quel momento ho iniziato con la batteria, poi la chitarra. Volevo fare il calciatore, allora. Ma, per merito di quei giostrai, ora suono e canto».
Ho letto che suo padre faceva il muratore.
«Non faceva, fa. È la sua passione. Vorrei dire che lo ha scelto per salvare la sua famiglia o altri crudi motivi. La verità è che è un lavoro che ama. Ha studiato da geometra, poi ha fondato un’impresa di costruzioni che non è andata bene e allora è tornato muratore. È il mestiere che la mia famiglia ha fatto per generazioni. Il mio trisavolo era muratore. Si sono sempre impegnati, hanno sempre faticato facendo gli imbianchini e, nei momenti più duri, piegandosi a lavoretti giornalieri. A Bergamo siamo fatti così».
E lei da piccolo ha mai pensato, come tutti i bambini, di fare il mestiere di suo padre?
«Sinceramente no, andavo ad aiutarlo la domenica ma non era il futuro che sognavo. Lui sperava che potessi fare qualcosa come l’architetto o l’ingegnere, magari avere un’azienda mia. Ma per me la musica, allora, era anche un modo per uscire dal mio paese, una comunità di 18 mila abitanti, che mi stava stretto, mi sembrava soffocante. Sono andato a lavorare in un pub a Londra e lì ho studiato, laureandomi con una tesi sulla musica progressive degli anni settanta. Sono fuggito, ma ora mi sono accorto che vivere ad Albino, dove sono tornato, mi rende felice. È la mia dimensione ideale».
Suo padre è contento, ora?
«Credo sia molto fiero. Non pensava che la musica sarebbe diventato un lavoro. Era scettico, eppure ha fatto di tutto per farmi riuscire. Lui mi ha regalato la prima e la seconda chitarra, lui mi è venuto a prendere alle quattro di notte alla fine dei concerti nei posti più strani. Aveva non solo fiducia, aveva fede in me, anche se non ci credeva. Non è proprio questo il dovere, vorrei dire il senso ultimo di essere genitori?».
Quanto vi sentite debitori della stagione dei cantautori italiani degli anni settanta?
«Quella stagione è irripetibile, c’era una tale ricchezza e diversità. Mi dispiace non averla vissuta. Mia madre me li ha fatti sentire tutti, li amava. Io ho una specie di “magnifica ossessione” per Lucio Dalla. Mi piace leggere tutto di lui, entrare nella vita che ha vissuto. Come mi piaceva molto un cantante un po’ dimenticato, Ivan Graziani. Una canzone che ho scritto si intitola “Irene”, come una delle sue più belle. Di Lucio Dalla la mia preferita è “Nuvolari”, la dimostrazione di come la musica possa saper raccontare altre passioni, difficilmente descrivibili, come una corsa, un’automobile, gli anni trenta. In fondo quel brano racconta qualcosa di “irracontabile” e ne rende la dimensione epica, la leggenda della quale avere nostalgia».
La vostra musica e i vostri testi hanno ambizione e semplicità, forse l’essenza di una dimensione pop.
«Italo Calvino è stato per noi una grande fonte di ispirazione. Lo abbiamo letto tutti, nella band, e spesso ne parliamo tra noi. La sua idea di leggerezza, molto lontana dal disimpegno, come sguardo in volo sul mondo, ci piace molto. Quando scriviamo, noi pensiamo a tre differenti tipologie di pubblico: quelli che lo sentiranno in modo distratto, quelli che si appassioneranno e quelli che analizzeranno ogni aspetto testuale e musicale. Nessuna di queste tre categorie deve mai sentirsi esclusa dal nostro lavoro. Faccio un esempio. Nella nostra canzone “Ricordi”, dedicata all’Alzheimer, credo ci siamo riusciti bene. Siamo riusciti a comunicare cosa significa stare vicino a chi perde la memoria e l’identità. Ma siamo riusciti a farlo con un linguaggio lieve che arriva al grande pubblico, trasportando quel contenuto. È questo il dovere di chi fa musica o cultura pop, credo».
Per anni si è dibattuto attorno all’antico stupido dilemma che nasce dalla classificazione di cultura alta e cultura bassa.
«Noi cerchiamo di mischiare le carte. Di mettere in relazione mondi apparentemente separati, incapaci di comunicare. Cerchiamo di avvicinare le lontananze. Mi permetta un esempio: il vitello tonnato.
Non credo che in natura un tonno e un vitello si siano mai incontrati. Ma è stata la genialità del primo cuoco che ha deciso di inventare questa combinazione a creare qualcosa di inedito, di felicemente”innaturale”. Il nostro tentativo di “unire i puntini” è anche un modo di dire ai ragazzi che ascoltano le nostre canzoni che non c’è una cultura della quale vantarsi e una di cui vergognarsi. Che l’importante è conoscere, è viaggiare, è non essere mai statici. L’importante è il movimento, che è la vita».
Come sono i giovani che incontrate. I Giovani d.c., dopo Covid?
«È difficile generalizzare. Ad esempio non esistono più sottoculture rigide. Tantomeno la politica, per la quale si avverte lontananza. Non credo solo per colpa dei giovani. Oggi tutto è fluido, si può ascoltare la musica trap e poi leggere Baumann. Io non sento una mancanza di valori tra i ragazzi. Ci sono mille suggestioni, forse più frammentarie, meno riconducibili “ad unum” ma forse questa è anche l’espressione di una magnifica libertà. Ci sono temi, come la sessualità e l’ambiente, che sono i valori costituivi di una generazione che non si limita a guardare il mondo. Poi ci sono anche le grandi rimozioni. Per esempio mi colpisce che la musica, e non solo, abbia ignorato la tragedia della pandemia, che ha cambiato radicalmente il modo di vivere di tutti. Polvere sotto il tappeto, ma è sbagliato».
Lei è una persona saggia, colta e non mi sembra ancora abbia subito le influenze, non tutte positive, della grande macchina del successo.
«Per ora non sta cambiando molto, nella nostra vita. Ma questo, mi rendo conto, lo dicono tutti quelli che si trovano a conoscere un improvviso successo. La nostra fortuna è che viviamo qui, ciascuno nel suo paese. È un grande antidoto ai mostri della fama. Vai dallo stesso panettiere, vai al cinema con i compagni di scuola e non avverti che qualcosa è cambiato. Quando andiamo a Roma o a Milano, quando siamo in tv capiamo, non siamo scemi, che il nostro “potere” è cresciuto. Ma siamo amici da dieci anni, siamo gente normale, non ci prendiamo sul serio, mai. Il potere, anche questo piccolo potere, va sempre sfottuto. Deve sempre sfottere sé stesso. È una cosa buona, è una garanzia di libertà».